L'Iran khomeinista, torvo e vendicativo come già il solo sguardo del suo fondatore suggeriva, con quelle sopracciglia da cattivo che sembravano fabbricate in un laboratorio teatrale, ci ha abituati a una forma di giustizia in cui il principio dell'occhio per occhio, dente per dente, viene praticato in modo implacabile e tassativo. Nessuna pietà, nessuna misericordia in un Paese in cui la pena di morte va ancora per la maggiore. Adultere lapidate, ladri amputati, spacciatori spediti nel mondo dei più (quelli non funzionali al sistema, alle strategie di potere e alle casse del regime, naturalmente): questo era l'Iran degli inturbantati, ai nostri occhi, fino a quando ieri non sono arrivate dalla città di Nowshahr, Iran profondo, le immagini che vedete qui sopra.
Raccontano, queste immagini, la storia atroce e bellissima di Balal, un condannato a morte che all'ultimo momento, quando ha già il cappio stretto al collo, viene graziato dai genitori del ragazzo il cui assassinio -una banale lite di strada, nel 2007- gli era costato la pena capitale. È la madre del morto, Abdolah Hosseinzadeh, questa eroina in cui la pietà materna (anche il condannato, come suo figlio morto, ha vent'anni) prevale infine sul naturale sentimento di vendetta. Uno schiaffo vibrato su una guancia del condannato: ecco la punizione riservata all'assassino del figlio. Che ha salva la vita per ricordare ogni giorno il bruciore di quello schiaffo comminatogli da una madre che non ha avuto bisogno di nulla di più per sentirsi ripagata della rabbia e del dolore.
Guardate le immagini. Lui, il condannato, brache azzurre e felpa nera, procede verso il patibolo a occhi bendati. Ha la bocca aperta nel terribile grido di chi chiede pietà. Un mullah lo sorregge, perché ogni condannato, a ogni latitudine, ha diritto al suo prete. All'intorno, un manipolo di funzionari, il volto grigio ombreggiato dalla regolamentare barba di tre giorni, lo sospingono verso la forca, un rudimentale accrocco di tubi innocenti. In un'altra foto eccolo sulla sedia, il cappio al collo. Fra il pubblico di uomini e donne muti, che sembrano venuti dal Medioevo, si vedono anche bambini. In prima fila, accucciata per terra, una mendicante storpia, la mano tesa, le dita ripiegate verso il polso nel gesto internazionale dei mendichi.
Poi c'è lei, la vera protagonista della storia. Avvolta nel suo hijab nero, il volto ossuto stretto in un velo monacale, gli occhi pieni di lacrime dietro le lenti da miope, le labbra serrate in un indicibile strazio. La Qisas, la legge della sharia della retribuzione, prevede che siano i familiari della vittima a spingere la sedia che determinerà la caduta nel vuoto del condannato. Ma è a questo punto, quando sulla testa del condannato è già calato il cappuccio nero che avviene il miracolo. La sedia resta ferma. Nel silenzio pare di sentire il sibilo di quella mano ossuta che vola nell'aria e si abbatte sul volto del condannato, mentre il padre del ragazzo morto sfila la corda dal collo del morituro. L'ultima immagine è quella di lei che fugge dalla scena ripiegata su se stessa, il viso tuffato in un fazzoletto bianco che spara su tutto quel nero.
Poi, perché la commozione sia al culmine, ecco l'abbraccio delle due mamme. Che bisogno c'era, del resto, di quell'altra morte? Abdolah, ha raccontato la madre, le era venuto in sogno dicendole che non c'era bisogno di vendetta, che lui si trovava in un luogo magnifico.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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