Se un Paese si ferma per paura di un ragazzino

Se un Paese si ferma per paura di un ragazzino

Le immagini più sconcertanti delle tragiche vicende di Boston sono quelle dell'epilogo. La Boston paralizzata con i suoi 5 milioni di abitanti chiusi in casa, le strade occupate dai blindati, i metrò e i treni fermi, i taxi bloccati, le scuole e i negozi chiusi rischiano di diventare la rappresentazione di un'autentica resa al terrorismo. Fuori non c'era un esercito nemico, non c'era un'organizzazione armata pronta a colpire di nuovo, non c'era più nemmeno una coppia di giovani terroristi improvvisati. Ne era rimasto solo uno. Un ragazzino di 19 anni sicuramente pericoloso, ma braccato e ferito. Eppure davanti al fantasma di quel fuggitivo l'America ha esibito un'immagine di fragilità e debolezza. Il paragone inevitabile è Israele. A Gerusalemme e Tel Aviv dieci anni fa gli attentati suicidi erano praticamente quotidiani. Qualsiasi fermata d'autobus, mercato o ristorante poteva essere l'obbiettivo di un esercito di kamikaze invisibili e imprevedibili. Dall'altra parte non c'era un ragazzino in fuga, ma un mondo di giovani palestinesi esasperati, in balia di predicatori dell'odio pronti a manipolarli con il miraggio del martirio. Dietro a loro agivano organizzazioni come Hamas e la Jihad Islamica pronti ad accoglierli, addestrarli, armarli e mandarli a morire.

Eppure in Israele in quei giorni difficili la vita non si fermò mai. Nessuno penso mai di rinunciare alla normalità di un autobus, della spesa al mercato o di un caffè al bar. «Questo - ti spiegavano - è quello che vorrebbero i terroristi, accettare la loro logica significherebbe dichiararsi sconfitti». Lo stesso, con le dovute proporzioni, accadde da noi negli anni di piombo. Nonostante paure ed inquietudini il paese scelse di continuare a vivere normalmente, di non piegarsi al terrore. Ieri invece il Paese che ha sopportato la perdita di 5mila soldati in Iraq e 2mila in Afghanistan ha scelto di chiudersi in casa, rinunciare ad un giorno di vita normale per far fronte all'emergenza di un singolo terrorista. Spiegare il paradosso di una simile fragilità non è facile. L'America, sicuramente, non concepisce qualcuno capace di volerle del male. La religione protestante, parte integrante del suo Dna storico, politico e culturale, la spinge a ritenere impossibile che qualcuno cresciuto al suo interno possa odiarla o detestarla. E infatti il segretario di stato John Kerry ha definito «diavolo» il fuggitivo. L'altra spiegazione è che, Pearl Harbour e 11 settembre a parte, l'America non ha mai vissuto un'aggressione sul proprio territorio. Le sue guerre le combatte sempre altrove. Il sacrificio dei propri soldati caduti lontano diventa il prezzo pagato per garantire la sicurezza del suolo patrio. Una terza spiegazione va cercata nella congenita incapacità anglosassone di reagire all'imprevisto. Un Paese abituato a chiare procedure per qualsiasi evento stenta a reagire a situazioni che rappresentano la quintessenza dell'imprevedibilità e dell'irrazionalità. Queste tre fragilità, sintetizzatesi dall'immagine di una Boston paralizzata e militarizzata, rischiano però di diventare il piede d'argilla del gigante che ha promesso di contrapporsi al terrorismo con una guerra senza frontiere.

Dodici anni dopo l'11 Settembre la rete ha definitivamente cancellato distanze e confini trasformando il mondo in un' immenso monolocale globale. Un mondo dove mostri come Tamerlan e Dzhokhar Tsarnaev possono germinare anche dietro il divano.

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