Non c'è dubbio che le birre artigianali abbiano puntato a scombinare le carte di una produzione nazionale tutto sommato statica. Da sempre infatti i birrifici storici navigavano serenamente sulle basse fermentazioni, ovvero lager chiare e bock ambrate. Le bionde e le rosse. I piccoli produttori invece si erano concentrati tutti, o quasi, sulle alte fermentazioni ispirate alle classiche birre belghe o anglosassoni e poi, una volta rodati, si erano sbizzarriti nella sperimentazione senza vincoli. Prendeva così l'avvio l'era del «famolo strano», un periodo capace di far brillare dei lampi di genio ma anche di creare degli incubi. Pesche di Volpedo e tabacco Kentucky, carciofi pugliesi e fagioli di Lamon, limoni di Sorrento e telline del lungomare laziale. Alti e bassi che però hanno avuto come conseguenza di instillare nel senso comune la dicotomia che le birre artigianali fossero quelle, appunto, strane e che le birre birre, restassero invece quelle dei grandi brand. Niente di più errato ovviamente.
In parte perché fin dagli albori del movimento c'era anche chi si dedicava alle basse fermentazioni e in parte perché sebbene facesse più notizia una birra con il basilico o con i fagioli rispetto a una lager costruita sui quattro ingredienti canonici della birra (acqua, malto d'orzo, luppolo e lievito) queste ultime lentamente ma inesorabilmente guadagnavano terreno. Tanto che oggi uno stile italiano riconosciuto anche all'estero porta il nome di Italian Pilsner. Quattro ingredienti, bassa fermentazione.
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