Il film del weekend: "La forma dell'acqua"

L'opera di Del Toro candidata a 13 Oscar non è solo una fiaba fantasy ma anche un dramma sentimentale con venature noir in cui si celebra il cinema classico e si invita alla tolleranza

 Il film del weekend: "La forma dell'acqua"

"La forma dell'acqua", il film di Guillermo Del Toro che ha vinto il Leone d'Oro all'ultimo Festival di Venezia e che è uscito nei cinema questa settimana, si prepara a essere protagonista della notte degli Oscar, forte di ben tredici nomination. L'Academy è stata sedotta da quella che è una fiaba adulta e visionaria, il cui fascino onirico arriva dritto al cuore, un'opera equilibrata e matura, senza dubbio la più riuscita del regista dai tempi de "Il labirinto del fauno".

A grandi linee, la storia appare un ibrido tra "Cenerentola", "Il mostro della laguna nera" e "La bella e la bestia", ma presenta anche evidenti richiami al miglior Tim Burton. Siamo nel 1962. Elisa (Sally Hawkins) è una giovane donna muta che fa le pulizie in una base militare nei pressi di Baltimora. Durante un turno di lavoro scopre che il luogo ospita una misteriosa creatura (Doug Jones), prelevata da un fiume del Sudamerica: un umanoide anfibio, ricoperto di scaglie. Il responsabile scientifico (Michael Stuhlbarg) ne studia la conformazione per sfruttarlo in future missioni spaziali, mentre il capo della sicurezza, Strickland (Michael Shannon), si diverte a torturarlo ritenendolo soltanto un mostro. Elisa guadagna la fiducia dello strano essere, riuscendo a comunicare con lui a gesti. La donna elabora un piano per liberarlo e restituirlo al suo habitat naturale, forte dell'aiuto del vicino di casa, Giles (Richard Jenkins), e della collega Zelda (Octavia Spencer).

L'amore come incontro di due solitudini è già stato raccontato più volte al cinema, la trama presenta alcuni snodi piuttosto prevedibili, eppure ciò non attenua la magia del film. Visivamente potente ed emozionante, "La forma dell'acqua" ha i propri punti di forza nell'amabile caratterizzazione dei personaggi e nella splendida estetica del mondo in cui si muovono.
L'opera di Del Toro non è soltanto una storia d'amore tra due teneri reietti ma un vero elogio della diversità. Nel film le persone affidabili appartengono a categorie tenute ai margini dalla società mentre i veri mostri presentano un'immagine nei canoni della cosiddetta "normalità". Il villain del film, dotato di famiglia perfetta, moglie bellissima e Cadillac in garage, nell'ottica dell'american dream incarna un self-made man da manuale, mentre è un uomo malvagio, sessista e razzista, utile a ricordare come certe problematiche degli anni '60 si siano conservate fino ad oggi.

Siamo in un monster movie atipico in cui accadono cose violente in atmosfere dark ma che mantiene intonsa la propria sostanza disneyana e una certa poetica fantasy: la danza tra i protagonisti è ora sentimentale ora sensuale e incanta, restituendo importanza al linguaggio non verbale.

Pervaso di romanticismo vintage e di sfumature nostalgiche, il film, con le sue citazioni alle suggestioni sognanti dei musical della vecchia Hollywood, è un affettuoso

tributo al cinema degli anni '40 e '50. In equilibrio tra levità e pathos, la pellicola mostra come amare equivalga a proteggere e quanto alcuni eventi lieti, in grado di regalare senso all'esistenza, meritino qualunque attesa.

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