La follia non si elimina per legge

La follia non si elimina per legge

La cronaca non ci dà tregua e ci ricorda che la follia, con le sue esplosioni di sangue e di orrore, è una nostra compagna di sempre, più insidiosa dei batteri e dei virus, convivente odiosa, tiranna e sofferta di tante famiglie. Follia cangiante e mutevole, che danna chi ne soffre e spesso, troppo spesso, sacrifica nel senso più letterale del termine chi al malato è vicino. Madri che uccidono i figli, giovani che trucidano i genitori, il demone è sempre al lavoro, non riposa mai, anche perché non sa quello che fa.
Il dramma di Merano è soltanto la replica di una tragedia ben conosciuta, il cui copione sostanzialmente è sempre lo stesso, anche se variazioni di tempi e luoghi possono dare l’illusione di trovarsi di fronte a una trama differente.
Certo, la follia è un’antica compagna, è coetanea dell’homo sapiens, ma questo non significa che si debba subirla con lo stesso spirito con cui si subiscono le folgori. Tutte le società, pure quelle primitive, hanno tentato di contenerla, infrenarla, domarla anche se non si sono mai illuse di poterla cancellare, né con i riti degli sciamani, né con le perfette tempeste dell’elettroshock, né con le suggestive reimmersioni nell’inconscio. Dalla «fossa dei serpenti» agli psicofarmaci, dall’invocazione degli spiriti alla psicoterapia, la lotta con i demoni della follia non si è mai fermata. Soltanto nella società italiana, di fatto, si è rinunciato da qualche decennio a contrastare la malattia mentale, a tentare di curarla, isolarla. O, almeno, la si contrasta con una rete terapeutica e profilattica piena di falle, con un sistema di centri di igiene mentale che in realtà curano soltanto chi vuole farsi curare e si sa che i malati di mente raramente ammettono di avere bisogno di aiuto. Si sono smarriti nei labirinti della schizofrenia e della paranoia, sospettano le intenzioni più ostili in chi nonostante tutto si ostina ad amarli, dubitano dei figli e dei padri, perduti negli abissi della paura di vivere.
In Italia chi soffre di disturbi psichici praticamente è abbandonato a se stesso, scaricato su famiglie che quasi sempre non hanno la forza economica necessaria per ricorrere a strutture di cura private e che mai dispongono delle conoscenze e delle competenze indispensabili per occuparsi di soggetti fragili e nel contempo pericolosi.
La legge 180 che ha chiuso i manicomi nasceva da pregiudizi ideologici, dalla presunzione che i disturbi mentali avessero una radice sostanzialmente sociale, quasi fossero una manifestazione delle storture e dei soprusi che si rovescerebbero sui soggetti più deboli della comunità. Non è il caso di discutere qui le teorie che hanno portato alla chiusura degli ospedali psichiatrici, restiamo sul pratico, limitiamoci a constatare che se per legge si possono abolire i manicomi non è egualmente possibile eliminare, per decreto, la follia.
I vecchi manicomi erano spesso dei luoghi orribili, dei piccoli mondi concentrazionari dove non si curava la malattia, ma si uccidevano la pietà e la dignità umana. Vero, verissimo. Ma fra il manicomio-lager e la pretesa di non curare più i disturbi psichici c’è un abisso. C’è, ad esempio, il tentativo civile di creare istituti a misura d’uomini in cui si possano curare i malati di mente, senza letti di contenzione, senza punizioni ingiuste e inumane, senza disprezzare la vita e offendere la dignità. Questo imporrebbe l’orgoglio di appartenere alla pattuglia dei Paesi avanzati.
Invece, pare che in Italia si sia scelta la via della rinuncia, come se, evitando di nominare la follia, la si potesse esorcizzare col silenzio, fino a guarirla.
Da decenni viene testimoniata e documentata la sofferenza di tante famiglie costrette a convivere con malati di mente pericolosi per sé e per i congiunti.

Da decenni cronache e dibattiti offrono motivi di riflessione e anche di vergogna. Ma la situazione non cambia. Il dramma della madre e del figlio di Merano ricordano che il diritto alla vita, alla salute e alla sicurezza possono essere ignorati. Fino al sangue.

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