La Franzoni: «Basta processi». E Taormina lascia

«Non sono un’assassina sonnambula. Dio illumini le vostre coscienze»

Stefano Zurlo

nostro inviato a Torino

Doveva essere il giorno dei periti e del viaggio nella mente di Anna Maria Franzoni. Bastano pochi istanti per mandare in testa coda l'udienza. Carlo Taormina si toglie sdegnato la toga, al suo posto arriva l'avvocato d'ufficio. «Noi intendiamo andarcene», esordisce l’avvocato, interrompendo senza tante cerimonie il presidente della corte d'Assise d'appello Romano Pettenati. Il giudice prova ad andare avanti, il penalista si sovrappone di nuovo con toni da ultimatum: «L'avverto che non può fare niente». E poi, dopo un sussulto del magistrato, lo saluta platealmente: «Faccia come crede, tanto è già tutto nullo».
Non c'è il tempo per riflettere. Anna Maria Franzoni, presente in aula a sorpresa, si alza in piedi e legge quattro pagine. Una sorta di comunicato-sfogo per spiegare l'addio al dibattimento: «Signor presidente, signori della corte, non ho ucciso mio figlio, altri lo hanno fatto. Vivo, da quando ho perso mio figlio, il dolore di cui soltanto una madre è capace, ma al tempo stesso sono costretta a confrontarmi con una sofferenza che è fonte perenne di prostrazione, giacché grava su di me il peso di dover essere additata come l'assassina di mio figlio».
La voce s'incrina, per un attimo la mamma del bambino ammazzato il 30 gennaio 2002, sembra non farcela. Il marito Stefano, al suo fianco, si protende quasi a sorreggerla; Taormina, invece, squadra accigliato Pettenati. La signora Franzoni riprende, ma ormai è tutto chiaro: imputata e difensore abbandonano polemicamente il processo. «Che se lo facciano lorsignori», è il titolo di coda di Taormina.
Pettenati prova a mascherare col suo aplomb sabaudo il proprio disagio, ma si capisce che è infastidito, quasi offeso. E pure preoccupato perché il piano di marcia verso la sentenza, attesa prima di Natale, subirà l'ennesimo ritardo. «Forse - continua lei - questo processo è stato, fin dalle prime battute, impostato per farmi dichiarare inferma di mente e gli strumenti utilizzati, a cagione della loro inconsistenza e futilità, si rappresentano ai miei occhi, come una strategia rivolta all'obiettivo di una soluzione compromissoria, che suonerebbe, per la giustizia, come la definitiva autorizzazione a lasciare libero chi tolse la vita a mio figlio».
Per la Franzoni la misura è colma: «Gli ultimi eventi mi hanno fatto comprendere che una mia mancata presa di posizione corrisponde ad avallare queste scelte e questa, a mio avviso, mortificante conduzione del processo. Mi riferisco all'eventualità di dovermi confrontare con l'incredibile ennesima ricostruzione, secondo cui io sarei una assassina sonnambula». Come da ultima puntata del viaggio nella psiche della mamma di Cogne.
Qualcuno, dietro le quinte, rievoca i proclami brigatisti letti nei tribunali tanti anni fa, ma, onestamente, il clima è un altro. Qui c'è una mamma tesa, quasi irrigidita, forse disorientata, che certo non si aspetta più nulla. E torna a casa. Avvilita da quel grande baratto che grava sull'aula: perizie su perizie e la prospettiva della seminfermità di mente in cambio di una sentenza mite, lontana dai 30 anni del verdetto di primo grado. «Invoco Dio affinché illumini le vostre coscienze. Per quanto mi riguarda, voglio solo continuare a guardare in faccia i miei figli perché da soli colgano l'innocenza della loro mamma, anche se malauguratamente ciò dovesse accadere dalle grate di un carcere, dove preferisco trascorrere da innocente quanto mi resta da vivere».
Per il momento non le resta che alzarsi e andare via. Subito seguita da Taormina, un ghigno sarcastico disegnato in faccia prima di posare sullo scranno dei giudici un dossier con tutti gli «errori della perizia psichiatrica».
Pettenati cerca di non perdere il controllo della macchina. Breve sospensione e in aula arriva l'avvocato d'ufficio, Paola Savio, incredula quasi quanto i presenti. Le concedono due settimane per cominciare ad acclimatarsi, intanto si porta avanti parlando cinque minuti cinque con Taormina. Il presidente riconvoca i periti, inutilmente scomodati e muti spettatori del duello fra difesa e corte, per il 4 dicembre; il 6 ci sarà la requisitoria dell'accusa, poi si vedrà, navigando a vista. Taormina, intanto, mette una pietra al collo del processo: «Non intendiamo partecipare più a questo rito brutale.

Da oggi - dice ai cronisti - si facciano il loro processo per conto loro. Questa storia -è la chiusa che preannuncia altri colpi di scena - non finisce qui. Le nostre ragioni dovranno essere vagliate da chi ha competenza».

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