Il gene della felicità è un «dono» che l’uomo di oggi non merita

«Combattuto come l’asino di Buridano, che muore di fame fra allegoria e realismo, fatto e favola, creativo e non fiction», Richard Powers, il premiatissimo autore americano de Il frabbricante di eco, nel suo ultimo romanzo Generosity (Mondadori, pagg. 356, euro 20, traduzione di G. Granato) propone una lunga meditazione sul rapporto fra scienza e libero pensiero, scritta con ritmo incalzante, nevrotico, disperante per esplorare gli effetti della scienza moderna, della tecnologia e dei media sulla vita dell’uomo contemporaneo. Romanziere di grande scioltezza intellettuale, descritto in America come un nostalgico della tradizione modernista europea da La montagna incantata a L’uomo senza qualità, nelle sue opere Powers ha scritto di genetica, neurologia, coscienza, memoria, informatica, scrittura creativa, musica - uno dei suoi libri più noti e più riusciti, The Gold Bug Variations, contiene profondi saggi su Bach - dimostrando una profonda inclinazione per il pensiero astratto e una minor capacità di dare un’anima ai propri personaggi.
Generosity, forse il più schematico dei suoi romanzi, affronta come gli altri una questione astratta: che cosa succederà quando gli scienziati riterranno di aver individuato il codice della felicità? Il romanzo procede per antitesi, da una parte Thomas Kurton, studioso di genetica supremamente sicuro di sé, non ha dubbi che la felicità sia un agente chimico del cervello, dall’altra Russell Stone, malinconico insegnante di scrittura non fiction, pensa come un poeta. Al centro c’è Thassadit Amzwar, una ragazza felice, nonostante sia una profuga algerina scampata alle violenze e agli orrori della guerra civile, il padre assassinato. Ventitre anni, senza paura, un sorriso inscalfibile che innervosisce gli americani, è approdata in un college di Chicago, il suo accento è indefinibile, dice di essere un’algerina berbera, venuta dalla Cabilia. Nella sua lingua tamazight, Thassadit significa cuore, gioia, espansione. Generosità appunto. La sua euforia affascina e sconcerta l’insegnante, che riflette sulla possibilità che generosità e genetica siano collegate.
La trama del romanzo è frenetica, affollata di storie che si sfiorano e si intrecciano. Nella sua solare spontaneità Thassa presenta una sfida non solo ai protagonisti, ma anche al romanziere stesso, che risolve di disegnare il suo personaggio tutto energia positiva solo attraverso le reazioni degli altri. I quali la ritengono eccessivamente felice, «in un modo che di sicuro non è quello giusto». Forse reprime gioiosamente il dolore perché affetta da stress post traumatico, forse è ipertimica, ma se è ipomaniaca allora è nei guai.
Entra in scena Thomas Kurton, genetista senza scrupoli impegnato in un progetto per isolare il gene della felicità. Sottopone la ragazza a dei test per concludere che i suoi cromosomi sono decisamente programmati per la felicità. I media si impadroniscono della scoperta, il genoma di Thassa va allo sbaraglio, un milione di persone ascoltano Kurton raccontare le sue meraviglie, altri dieci milioni si passano la parola. La sua fama di donna felice è contagiosa, Thassa diventa una celebrità, accetta di mettere all’asta il proprio profilo genetico, partecipa ai talk show più prestigiosi, diventa un fenomeno su internet, fa sensazione su YouTube, ma la pressione la spezza, e tenta il suicidio. Smentendo la sicurezza dello scienziato.

Alla fine del romanzo leggiamo che Thassa ha venduto con successo i suoi ovuli e un bambino con i suoi geni è già nato. Tanto rumore per nulla? Non credo. Dopo tanto affanno speculativo su determinismo biologico e libero arbitrio, Powers lascia a noi decidere fra il mistero dell’uomo e il controllo scientifico del nostro destino.

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