Il generale Fini conta le truppe e scopre che si deve arrendere

RomaNessuno lo descrive agitato, figuriamoci preoccupato. Anzi, «è tranquillo». Sarà. Di certo, anche se qualcuno parla già di una «marcia indietro», Gianfranco Fini continua ad organizzare le truppe. E lo fa sin dal mattino, quando chiama a sé un gruppetto di fedelissimi: Andrea Ronchi, Italo Bocchino, Adolfo Urso, Carmelo Briguglio, Flavia Perina, Pippo Scalia. Si tiene pronto, se serve, quantomeno è quanto fa credere, a sferrare l’attacco finale. Non prima di giovedì, però, quando si presenterà per la prima volta in Direzione nazionale - convocazione che commenta con favore, giudicandola «prima risposta positiva» alle problematiche poste al premier - con in mano un ordine del giorno ben calibrato, da sottoporre all’assise pidiellina, allargata ai parlamentari, sottoscritto due giorni prima da deputati e senatori disposti a giurargli fedeltà. Anche se ciò volesse dire abbandonare il Cavaliere e il Pdl per confluire in gruppi parlamentari autonomi. Si vedrà: l’opzione è da extrema ratio.
Ma intanto i suoi assicurano: «Abbiamo già decine di firme virtuali». Quarantasei, forse quarantotto - azzardano - tra i deputati, 18 tra i senatori, chiamati già uno ad uno dalla segreteria del presidente, a cui è stato dato appuntamento per martedì («se avete impegni dovete disdirli», è la linea irremovibile), presso la Sala Tatarella di Montecitorio: location che rievoca proprio quello spirito di destra da rivendicare. E poco importa per adesso se i numeri concreti, alla fine della «conta, necessaria - rintuzzano - per far capire che non stiamo scherzando», siano più esigui (18-20 alla Camera, 7-8 al Senato, si fa notare dall’altra parte della trincea). «Saranno più che sufficienti - ragionano - per creare un nostro gruppo, con cui il governo dovrà confrontarsi ogni volta». E anche se non mancano i dubbi sulla consistenza reale dell’ultimatum, un paio di ex An inquadrano così il potenziale scenario futuro: «Siamo pronti a fare come Osama, altro che Obama...». Terrorismo politico? Chissà. Ma è comunque probabile che tutto ciò rimanga nel mondo delle intenzioni. E non solo perché a scongiuralo siano scesi in campo diversi pontieri: Ronchi, Alemanno («abbiamo fatto dei passi avanti»), Augello. Lo si intuisce pure dalle parole di Bocchino, che prima di raggiungere Palazzo Grazioli, dove il premier convoca la riunione dell’Ufficio di presidenza per «comunicazioni urgenti» - decisione che desta di primo acchito seria preoccupazione tra i finiani - smorza: «Fini non vuole rompere, ma ha posto alcune questioni politiche a Berlusconi». Lo stesso che dopo l’invito a Fini a «desistere», rivolto dal Cavaliere in serata, commenta: «Le sue parole sono il frutto del lavoro di tutti nel corso dell’Ufficio di presidenza». Mezza frenata alla scissione? Forse sì. Tanto che Urso aggiunge: «L’ipotesi della creazione di gruppi autonomi è molto più lontana».
In ogni caso, è una deadline posticipata. E al di là della soddisfazione o meno per l’esito dell’incontro in via del Plebiscito, sarà all’Auditorium di via della Conciliazione (chissà se benaugurale) che il presidente della Camera - carica che non mollerebbe pure in caso di rottura - si presenterà da leader di minoranza, per ribadire l’esigenza di un «maggiore ascolto e confronto interni» e scongiurare l’appiattimento sulla Lega. Altrimenti, via ai gruppi autonomi. E poi, allargamento dei consensi (al Sud e al Nord per inglobare il malcontento anti-leghista) e lungo lavorio in prospettiva futura, per giocarsi nel 2013 la leadership.
Ad ogni modo, spiegano i suoi, «è evidente che si sia già aperta una nuova fase». Per capirci: «Il patto fondativo del 70-30 è stato tradito». Quindi, «senza garanzie concrete sul rispetto dei cinquant’anni di storia della destra italiana, non c’è alternativa». Insomma, «Fini dovrà sedere al tavolo delle decisioni con Berlusconi e Bossi e fare politica in prima linea», è la richiesta minima, che fa rima con «tridente».

È una questione di «dignità» politica, ripetono in coro dalle parti di Fini. Dove rimarcano che «non si tratta di togliere Gasparri o La Russa e inserire chi ci rappresenti di più». In realtà, è anche questo uno snodo cruciale. Ma qui sarà dura.

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