Quei piatti tipici che nascono nella preistoria

Orzo, grano e fagioli, miscelati in proporzioni variabili per ottenere zuppe «non troppo dissimili dall'attuale mes-ciùa spezzina, un mix brodoso ma sfizioso di legumi»: li hanno trovati gli archeologi nei castellari della Val di Vara. E ancora: resti d'orzo e frumento rinvenuti nel castellaro di Bergeggi, «insieme a frammenti d'animali d'allevamento». Ma in tavola - sarebbe meglio dire: nella ciotola stretta fra le mani, davanti al fuoco - i liguri della preistoria gustavano spesso e volentieri anche il garum, una sorta di antenato della salsa d'acciughe. Solo che allora, secoli e secoli fa, la «ricetta», si fa per dire, prevedeva che il pesce fosse lasciato esposto a lungo al sole, prima di unirvi l'origano, passarlo nell'acqua di mare concentrata e metterlo sul fuoco, a cuocere fino al punto in cui si riduceva di volume; infine, il tutto si doveva «filtrare due o tre volte attraverso un colino, continuando a setacciare finché non scendeva puro».
Leccornìe d'antan? Lasciamo perdere, meglio, molto meglio le acciughe di Monterosso, attuale presidio Slow Food.... Resta il fatto che quel tipo di alimentazione contribuiva, comunque, a far sì che i liguri fossero «resistentissimi alle fatiche e vigorosi» come scriveva Diodoro Siculo, I secolo a.C. Aggiungendo anche: «Ben lungi dall'indolenza prodotta dalle perdizioni, i liguri sono sciolti nei muoversi ed eccellono per vigoria negli scontri bellici. Tenaci e rudi, asciutti, nervosi». D'altronde, «abitano una terra sassosa e del tutto sterile e trascorrono un'esistenza faticosa ed infelice per gli sforzi e le vessazioni sostenute nel lavoro». Da allora, certo, i gusti in cucina si sono alquanto affinati. Eppure, molto, moltissimo di quanto c'è oggi nella tradizione gastronomica regionale deriva senza dubbio da quello che, «durante le remote età e la romanizzazione, costituiva la mensa dei Liguri»: basti pensare alla farinata di ceci, alla prescinsêua, ai testaroli, al castagnaccio, e (ma solo in parte) al pesto al mortaio .
A ricordarcelo, in un documentato volume edito da De Ferrari con il contributo della Camera di commercio di Genova, dal titolo «Il cibo in Liguria, dalla preistoria all'età romana», è uno storico dell'alimentazione, Umberto Corti. Che, con la curiosità, la competenza, la pazienza introspettiva proprie dell'archeologo, ha esplorato le origini di una tradizione culinaria di tutto rispetto. Si badi bene: di tutto rispetto ed eccellenza, non tanto per il pregio degli ingredienti, quanto piuttosto per la sapienza con cui i liguri hanno saputo «fare sistema» con ingredienti poveri. Inventandosi, a volte con creatività encomiabile, la quadratura del cerchio: il sapore con la sostanza energetica (tanto per dar ragione a Diodoro Siculo!).
Dal libro di Curti, scaturisce una tradizione culinaria che ha radici profonde. «Lo specialista Curti - scrive il presidente della Camera di commercio, Paolo Odone, nella prefazione - accompagna lungo un percorso che comincia a Luni e termina a Ventimiglia.

Affiora la quotidianità, di uomini che da un'economia di caccia e, parzialmente, di pesca seppero addivenire con successo ad attività di allevamento e agricoltura, e dal latte ricavare formaggi, dalle olive estrarre olii, dall'uva ottenere vini...».
Una sapienza che dal passato si è trasmessa al futuro. E ha fatto dell'enogastronomia ligure una vetrina del gusto, ma anche un'espressione fedele di cultura del territorio.

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