Il conte Paolo Gentiloni Silverj, nobile di Filottrano, Recanati, Cingoli e Macerata, nonché Sua Eccellenza il ministro degli Esteri del governo italiano, è uomo di poche parole ma confuse. Un anno fa il premier Matteo Renzi lo ha piazzato alla Farnesina, oltre che per fare dispetto al presidente Giorgio Napolitano e a parte il curriculum di renzianissimo convinto, perché egli incarna i requisiti fondamentali per guidare la nostra diplomazia: grigio negli abiti e nei capelli, occhialetti da impiegato del catasto, sorriso triste, tono di voce moderato, prudente in ogni chiacchiera con i giornalisti, capace di imbastire discorsi senza dire nulla.
Quello che invece difetta al Nostro è un po' di memoria. Dice qualcosa e il giorno dopo, oppure mesi dopo, sostiene l'opposto. Prendiamo il caso di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le cooperanti lombarde rapite dai ribelli siriani e liberate a metà del gennaio scorso. Tutti sanno che i rapitori non tolgono i lucchetti ai ceppi perché colti da repentini scatti di buon cuore, ma obbediscono alla legge della domanda e dell'offerta: ragazze in cambio di denaro.
Al maestro di cerimonie Gentiloni toccò pronunciare in Parlamento la pietosa bugia: «Ho letto ricostruzioni a proposito del riscatto prive di fondamento e veicolate da gruppi terroristici - scandì in aula il 16 gennaio -. Siamo contrari a ogni tipo di riscatto». Poi si lanciò in acrobazie linguistiche per dire e non dire: «L'Italia in tema di rapimenti si attiene a comportamenti condivisi a livello internazionale. Per noi la priorità è sempre la tutela della vita e integrità fisica dei nostri connazionali».
Altro che «ricostruzioni prive di fondamento». Non solo Greta e Vanessa avevano saputo dai sequestratori che l'Italia aveva pagato; ora si aggiunge un tribunale islamico che ha condannato uno dei rapitori per essersi messo in tasca una bella fetta, forse la metà, dei 12 milioni e mezzo di dollari scuciti per il rilascio delle ragazze. Guardacaso, all'indomani della liberazione si era parlato proprio di 12 milioni di riscatto. E il ministro? Bugia dopo bugia, continua a smentire. Stavolta però in Parlamento ci è andata Maria Elena Boschi.
Obbligo di rettifica anche quando al vertice della coalizione anti Isis, il gennaio scorso, Gentiloni ipotizzò rischi «anche notevoli» di infiltrazioni di terroristi tra i migranti e un'ora dopo corresse il tiro: «Nessun Paese democratico può avallare alcuna confusione tra fenomeni migratori e terroristici». Per Paolo Gentiloni la smemoratezza (che qualcuno interpreta come abitudine a vendere fumo) è una compagna di vita.
Nel 2008, da ministro delle Comunicazioni nel secondo governo Prodi, dimenticò di segnare cinque immobili nella dichiarazione patrimoniale del 2007, cioè tutte le case possedute fuori Roma. Nel 2001 da capo della campagna elettorale di Francesco Rutelli, una delle più infelici per la sinistra italiana, assicurò: «Il duello in tv si farà e Rutelli sorpasserà il Cavaliere». Non accadde né l'uno né l'altro dei vaticini gentiloniani. Cinque anni dopo, alla vigilia delle elezioni 2006, giurò e spergiurò: «Niente spoil system in Rai». Che invece puntualmente avvenne. Da ministro garantì che avrebbe abbassato il volume della pubblicità: chi se n'è accorto?
Ma la promessa delle promesse mancate riguarda la legge Gasparri. Gentiloni se n'era fatto un punto d'onore e Prodi usò le buone maniere del nobile rutelliano per martellare le tv di Berlusconi. Quando divenne ministro, nel 2006, legò la sua permanenza alla modifica degli assetti radiotelevisivi con proposte legislative penalizzanti per Mediaset, come l'anticipo del trasferimento di una rete Mediaset sul digitale terrestre e i limiti alla pubblicità per i soggetti che superavano il 45 per cento. Cioè ancora Mediaset, che era al 65.
Gli andò male anche quella volta e la legge Gasparri è resistita fino a Renzi. Il ministro delle cause perse propose la riduzione dell'affollamento pubblicitario, la campagna contro gli spot brevi durante le partite di calcio, l'equiparazione tra pubblicità e telepromozioni, la rinegoziazione dei diritti sportivi: tutte e quattro le volte Gentiloni sbatté contro il muro dei fallimenti.
Non dimentichiamo che, appena insediato alla Farnesina, Gentiloni telefonò ai marò prigionieri in India garantendo che la loro liberazione sarebbe stata la sua principale preoccupazione da ministro degli Esteri. Purtroppo per i due fucilieri di marina, il ministro non poteva trattare il governo di Nuova Delhi come i ribelli siriani. E infatti Salvatore Girone e Massimiliano Latorre sono ancora ostaggi della giustizia indiana.
Del resto, lo stesso conte rosso ha cambiato bandiera una quantità di volte nella sua carriera. Nato nel 1954, ha fatto il '68 al liceo Tasso, il più famoso di Roma, tempio dei borghesi progressisti e dei radical chic: Gentiloni ne guidò l'okkupazione. Il suo è un casato nobile e borghese, tra i suoi antenati più noti c'è Vincenzo Ottorino Gentiloni Silverj, uomo di fiducia di Pio X che nel 1912 strinse con Giovanni Giolitti il Patto che porta il suo nome e di fatto segnò la nascita del Partito popolare; e nonostante questa tradizione papalina il giovine Paolo stava con l'estrema sinistra: Movimento studentesco di Mario Capanna, poi il Movimento lavoratori per il socialismo e infine il Pdup di Lucio Magri.
Negli anni '80 avvenne la svolta verde. Chicco Testa porta Gentiloni in Legambiente e lo nomina direttore di Nuova Ecologia . Qui si lega a Francesco Rutelli, ex radicale, che da sindaco di Roma lo nominerà assessore al Turismo (ebbe anche le deleghe al Giubileo) e successivamente, da leader nazionale della Margherita, portavoce del partitello e capogruppo in Commissione di vigilanza Rai. Ma la maratona non era ancora finita perché Gentiloni divenne, nell'ordine, prodiano poi montian-lettiano e infine renziano, assieme alla pattuglia di ex rutelliani «piacioni» formata da Ermete Realacci, Roberto Giachetti, Michele Anzaldi.
Il suo sogno nel cassetto non era fare il ministro, ma il sindaco di Roma. Da assessore di Rutelli ci aveva preso gusto. L'occasione propizia si presentò alla fine del 2012 dopo le dimissioni di Gianni Alemanno. Il partito esitava, le primarie incombevano, e Gentiloni avanzò un'autocandidatura drammatica. Piazzò scaramanticamente il comitato elettorale in Piazza delle Cinque Lune dove aveva sede il comitato cittadino di Matteo Renzi. Pensava di avere l'esperienza, gli agganci e che il Pd fosse compatto alle sue spalle per sostenerlo. Invece nella primavera successiva finì terzo, tristemente sconfitto da un maestro del bluff come Ignazio Marino e preceduto perfino da David Sassoli, mezzobusto Rai finito nell'esilio dorato di Bruxelles come europarlamentare.
Nemmeno quella volta Gentiloni ebbe uno scatto d'orgoglio, un'arrabbiatura, un'impennata di vitalità. Accettò il verdetto accontentandosi del seggio in Parlamento.
Terzo alle primarie come Roberta Pinotti (comune di Genova), ministro della Difesa, e come Davide Faraone (comune di Palermo), sottosegretario all'Istruzione. Anche Gentiloni fu risarcito un anno dopo con un posto di governo alla Farnesina, ma succedere a una come Federica Mogherini è giusto un premio di consolazione.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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