Gianfranco, il leader «freddo» che ha seppellito il Ventennio

Ha rotto con il passato missino, ha definito il fascismo «male assoluto» e ringrazia Bertinotti. Storia di un uomo di destra poco littorio ma molto portato a «ragionare e a governare»

da Roma

«Fini, fascista-sei il primo-della lista» scrisse una sinistra mano anonima sui muri dell’istituto magistrale «Laura Bassi», di Bologna, che il futuro presidente della Camera frequentava, sedicenne, nel ’68. Oggi, è da destra che piovono le critiche: «Un nome cui manca un accento» hanno sostenuto gli ultrà di Forza nuova. Perché nei 40 anni in cui molta acqua è passata sotto i ponti, una cosa è certa: con lui, finì il fascismo. Inteso almeno come partito politico.
In realtà nessuno l’ha mai visto indossare i panni del duro con cui l’agiografia dipingeva i giovani di destra. «Rambo e macho? Macché! Cocciuto, semmai. Palloso e metodico, fin troppo portato al ragionamento...» confessava di sé nei primi anni ’90, quando Tangentopoli lo proiettò a sorpresa a gareggiare quasi alla pari con Rutelli per la poltrona di sindaco di Roma. Tanti di quelli che l’hanno conosciuto personalmente devono ammettere che non ha nulla di littorio o di vagamente mussoliniano. E se a taluni sembra un animale «a sangue freddo», è per via del suo imbarazzo nell’esternare i sentimenti più che il frutto di cinismo.
Che sia uomo di «svolte», l’ha dimostrato in più di una occasione. Aveva mezzo partito in rivolta contro di lui quando annunciò il congresso a Fiuggi, nelle cui acque, era il 1995, si sarebbero dovuti sciogliere definitivamente i retaggi della cultura fascista. Tenne duro, rischiò scissioni a ripetizione e finì per ritrovarsi attorno pressoché tutti gli iscritti al vecchio Msi, più nuovi adepti pronti a fornire linfa al partito che nasceva. Parimenti ha avuto il coraggio di far sapere a Gerusalemme che gli sarebbe piaciuto andare a rendere omaggio alle vittime della Shoah. E dopo avere atteso a lungo riuscì a raggiungere il traguardo, arrivando a definire le leggi razziali emanate nel Ventennio come una tragedia e lo stesso fascismo come «male assoluto».
Di sfida in sfida arriva ora allo messa in conto dello scioglimento di fatto anche di Alleanza nazionale. «Ero contrario a confluire in un partito deciso unilateralmente. Quel che stiamo costruendo fa invece parte di un progetto condiviso insieme...» spiegò del resto subito dopo aver resa nota la sua adesione al progetto del Popolo della libertà voluto da Berlusconi come risposta all’ipotesi di fondere Ds e Margherita nei Democratici.
I nemici dicono voglia incarnare una nuova Dc, moderata e clientelare. Lui non ci sta: «Mi chiamano Gianfranco Andreotti? Battute se ne possono fare finché si vuole, ma è una fesseria. Non considero il compromesso come unico metodo di governo, non sono indifferente ai princìpi. E non credo che la politica sia gestire e durare, ma governare». E del resto anche chi sostiene che abbia l’aria mesta di un cocker, deve ammettere poi come possegga la presa di un dobermann. Se ha un obiettivo, difficile che molli. E quanto sia vero lo prova il fatto che con Bossi e i suoi - dopo i fulmini e i temporali della breve stagione del primo centrodestra, nel ’94 - è riuscito a trovare la «quadra» forse prima e meglio di tanti azzurri berlusconiani. Frutto del compromesso del compianto Tatarella («Mister suprema armonia») che, prevedendo la nascita di una repubblica presidenziale su base federalista, prendeva due piccioni con una fava.
Adesso Fini siede sulla poltrona di presidente della Camera, ma - come a Fiuggi - dicono ripeta spesso di sapere perfettamente «di essere sotto esame di democrazia». Neanche il possibile scioglimento di An nel Popolo della libertà lo incita a buttarsi definitivamente dietro le spalle le possibili accuse di non aver tagliato di netto col passato. Eccolo allora indirizzare il suo omaggio al predecessore Bertinotti. Eccolo ricordare Aldo Moro, il 25 aprile e il 1º maggio, rilevando come «celebrare la ritrovata libertà dell’Italia e la centralità del lavoro sia un dovere cui nessuno può sottrarsi». Ed eccolo approfondire i suoi contatti all’estero, già resi robusti con un’assidua e approfondita presenza ai lavori per la costruzione della Costituzione europea. Poco dopo Fiuggi confidò che il suo sogno era quello di copiare in qualche modo quanto Charles De Gaulle costruì in Francia, dopo la guerra e la crisi algerina. Non riuscì a smuovere più di tanto Chirac, erede del generale, ma con Sarkozy ha già sviluppato eccellenti rapporti. Anche se il compito che si è voluto ritagliare in questa fase è un altro.

Spiegò, qualche giorno prima di essere votato a Montecitorio, di essere certo della necessità di ricucire il rapporto tra italiani e politica, per fugare il timore che la «casta» possa prendere il sopravvento alimentando così il qualunquismo. Ed è per questo che ha maturato la nuova svolta. Da cui si attendono nuovi e - si spera buoni - risultati.

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