Scommettete zero euro su come andrà a finire la campagna per le primarie del partito repubblicano americano. Tutto aperto, tutto incerto, tutto fluido. La vittoria in South Carolina di Newt Gingrich mette in discussione ogni potenziale certezza. Ora può vincere lui, può vincere Romney, può persino vincere qualcun altro. Niente azzardi, niente previsioni. Se un euro qualcuno lo volesse giocare, invece, allora che lo scommetta su che cosa farà adesso Gingrich: cercherà di trasmettere all’America, alla sua America, l’idea del nuovo Reagan. Lui, sì. Così si pone, così si sente: vede un Paese che ha bisogno di tornare a quegli ideali incarnati da The Gipper. Alla fine dell’ultimo dibattito stravinto in South Carolina ha detto: «Se ho vinto non è perché sono un good debater. Ma perché esprimo i valori profondi del popolo americano. Sono pronto a scontrarmi con Obama per dimostrare che è lui l’estremista». Coma a dire: io sono l’americano, lui no; io sono quello autentico, lui no; io sono quello occidentale, lui no. È l’omaggio aggiornato all’ideale di un’America leader del mondo dell’era reaganiana, quella capace di battere l’Unione Sovietica e il comunismo. A quell’epoca, Gingrich si ispira anche nei dettagli simbolici: la festa dopo la vittoria in South Carolina è stata accompagnata da Born in the Usa di Bruce Springsteen, considerato un manifesto dell’America anni Ottanta: quella di Rocky e di Rambo, quella dei noi siamo i buoni e gli altri sono i cattivi.
Gingrich guarda lì, a un passato da aggiornare: attacca la Cina e il suo strapotere sul debito pubblico americano. Dice che con lui alla Casa Bianca cambierebbe tutto. Il 40 per cento ottenuto in South Carolina è il punto di partenza di una nuova strategia: dopo la vittoria ha lodato Romney, Santorum e Paul, cioè tutti i rivali in queste primarie. Un modo per presentarsi come un duro sì, ma ecumenico, uno quindi in grado di conciliare eventualmente le istanze dell’elettorato più conservatore, ma anche quelle dei gruppi più moderati che tifano Romney. L’ex speaker della Camera sa che la sfida sarà lunga. L’ha voluto lui: è la sua vittoria a cambiare gli equilibri e ad allungare la corsa. Adesso si va in Florida, dove teoricamente è favorito Romney, ma dove a questo punto i giochi si riaprono: i 15 punti medi di vantaggio nei sondaggi dell’ex governatore del Massachusetts diventano molto relativi. Anche in South Carolina c’era questo margine e la situazione s’è ribaltata in quattro giorni. Da qui al voto di Tampa, Miami, Orlando e Tallahassee c’è più di una settimana perciò è davvero come se si ripartisse da zero. Pronti, partenza, via: all’inizio delle primarie sembrava che la tappa in Florida sarebbe stata il potenziale traguardo, ora invece è il contrario. Sarà una corsa lunga: lo dicono gli staff dei candidati, lo dice lo stratega del bushismo Karl Rove, lo dicono i giornali che detestano Gingrich, ma che in queste ore ne hanno riconosciuto sia la capacità di recuperare da un inizio di primarie non esaltante, sia di sfruttare gli errori di Romney. Perché questa è un’altra chiave: il vincitore in New Hampshire è clamorosamente caduto sulla storia delle tasse al 15 per cento e del conto segreto nel paradiso fiscale delle Cayman. Un peccato troppo grande che adesso lo costringe a rincorrere Gingrich e a dimostrare di non avere nulla da nascondere. Ieri Romney ha annunciato che pubblicherà i suoi redditi on line. La ricchezza è la debolezza dell’ex governatore del Massachusetts, così come l’infedeltà e la movimentata vita sentimentale sono quella dell’ex speaker della Camera. Gingrich, però, è più abile a rimbalzare le accuse: è più aggressivo, è più pronto, è più abituato. Ha lottato di più nella vita e in politica. Semmai ha il problema opposto, Newt: l’aggressività e il carattere lo portano a esagerare. Quando sente odore di vittoria rischia di strafare, di sentirsi già al traguardo.
Non è questo il caso. Non ora. Lui, come l’avversario principale, sa che si andrà per le lunghe, sa che ci vorrà tempo, ci vorrà pazienza.
C’è qualcuno che intravede anche la possibilità che si arrivi alla convention di settembre senza un vincitore e che la nomination si decida lì con un accordo dietro le quinte, con un inciucio di palazzo fatto fuori dal palazzo. Difficile, ma possibile, certo. In America può succedere tutto.twitter: @giudebellis
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