La giovinezza "immensa e rossa" di Brasillach

Un amore carnale e ideale, l'incanto del cinema e gli anni migliori visti come un Paradiso perduto

La giovinezza "immensa e rossa" di Brasillach

Di recente si è parlato molto, perlopiù a sproposito, di Robert Brasillach. L'intellettuale francese nato nel 1909 e morto nel 1945 (fucilato con l'accusa di «collaborazionismo»), viene ciclicamente ricordato per l'impegno fascista e per la decisione di «collaborare» con i nazionalsocialisti, che dal 1940 al 1944 avevano occupato la Francia, dopo averla sconfitta senza quasi incontrare difesa. Quella frase sempre citata, senza comprenderla, del «fascismo immenso e rosso», altro non è che una licenza poetica. Lo ha ricordato uno dei più grandi studiosi del fascismo, George L. Mosse: gli intellettuali francesi «tentati» dalla «rivoluzione fascista» erano inebriati da un'estasi perlopiù poetica. Ma la breve, pur se operosa esistenza di Brasillach, non è rinchiudibile solo nell'ideologia, avendoci egli lasciato una produzione considerevole: saggi, testi teatrali, memorie, traduzioni di poeti greci e di Shakespeare, oltre ai tantissimi articoli di varia critica e di contenuto politico. E, occorre ricordarlo, romanzi. In pochi hanno voluto misurarsi seriamente con Brasillach narratore. Per definirlo si sono utilizzate, tranne rare eccezioni, etichette generiche: scrittore debole, esile, inconsistente, datato, desueto, minore. Ma l'opera narrativa di Brasillach va misurata nella sua epoca.

Esordisce nel 1932 e chiude la carriera nel 1944, pubblicando sei romanzi. Ai quali ne vanno aggiunti due postumi. Negli anni in cui Brasillach si afferma come scrittore di grande interesse della nuova generazione, il panorama letterario francese è dominato da André Gide. Il quale ha ereditato lo scettro di «principe delle lettere» dal nazionalista e cattolico Maurice Barrès, e lo lascerà, dopo aver vinto il premio Nobel per la letteratura nel 1947, a Jean-Paul Sartre. Leggendo oggi in comparazione Gide e Brasillach, si può affermare, senza pregiudizi e con assoluta certezza, che il primo è un «maggiore» e il secondo un «minore»? La risposta è semplice: vanno letti entrambi con attenzione. Fortunatamente a breve distanza dallo splendido Sei ore da perdere - racconto breve degno del miglior Georges Simenon - ancora per Edizioni Settecolori esce Il tempo che fugge (pagg. 376, euro 22), quarto romanzo di Brasillach pubblicato nel 1937. L'intreccio narrativo, ambientato soprattutto nella Parigi del primo Novecento, è imperniato sulla storia d'amore tra René e Florence. I due si conoscono dall'infanzia. Dal loro rapporto nasce un figlio, che la donna cresce da sola, poiché nel René è partito per il fronte.

Da un autore così sobrio e pudico non ci si aspetterebbe un passaggio per l'epoca davvero audace. Nel terzo episodio «La notte di Toledo» i due protagonisti hanno un rapporto sessuale, lungamente descritto. Brasillach è scrittore classico ma al tempo stesso moderno. Lo dimostra in maniera inequivocabile nel secondo capitolo, «I cacciatori d'immagini», omaggio al misterioso fascino esercitato dalla proiezione delle immagini in movimento. Brasillach sin da giovanissimo è stato un incallito cinefilo. Altro lato, moderno quanto mai, perennemente coperto da un cono d'ombra. I cinefili non sono sbocciati, come vuole la «vulgata», nel dopoguerra, abbeverandosi al cinema americano. La generazione di Brasillach ha scoperto il potere magnetico delle immagini quando il cinema era ancora silente. E ha avvertito, spesso, il bisogno di fissare nella scrittura le meravigliose emozioni provate nel buio della sala.

Il giovane scrittore è stato dal 1932 al 1939 critico cinematografico della Revue universelle, austera e riflessiva testata, colta e cosmopolita, nella quale si è rispecchiato il meglio della cultura targata Action française. Inoltre, insieme al cognato Maurice Bardèche, ha scritto nel 1935 la prima storia del cinema, testo di «culto» e «formazione» per almeno due generazioni di appassionati della «settima arte». Scriverà, nelle «memorie d'anteguerra» pubblicate nel 1941, di provare pena per quanti non hanno potuto conoscere «questo periodo eroico del cinema, quelle prime sale dove vedevamo, tra le nebbie del fumo delle sigarette, le vertiginose immagini in bianco e nero, dove ci si dimenticava completamente del mondo intero». Ha ragione Riccardo Paradisi a scrivere nella postfazione che Il tempo che fugge è un testo incantato: «romanzo di formazione e diario intimo, meditazione sul destino e sul tempo, racconto della e sulla giovinezza». Nonostante la giovane età (ancora non ha compiuto trent'anni), l'autore ha la precisa sensazione che la giovinezza abbia rappresentato il meglio della propria esistenza. Un tempo tramontato. Quindi prova un fortissimo e struggente senso di nostalgia, che aleggia in quasi ogni pagina. Ci si ritrova vecchi in un battito d'ali. Infanzia, giovinezza, età adulta, vecchiaia. Dall'alba al tramonto.

Brasillach è il «poeta della giovinezza». Il mondo disincantandosi è andato incontro alla rovina. La sola salvezza - rivoluzionaria - è la giovinezza. E il fascismo, «poesia del XX secolo», è la giovinezza su cui si baserà l'ordine nuovo. In Il tempo che fugge si esplicita il profondo convincimento umano e filosofico dell'autore. L'ideologia è totalmente assente. Presente sarà a breve, quando in I sette colori (1939), l'autore deciderà di mescolare la finzione con l'impegno politico. Il tempo che fugge si apre con una citazione della Genesi: Dio creò il mondo. La fuggevole giovinezza del mondo è stata il Paradiso, purtroppo perduto. Destino degli uomini è inseguirlo, sognarlo, attenderlo, soffrire e struggersi per la sua mancanza.

Negli anni Trenta tanti, troppi intellettuali - poeti, pittori, scrittori, cineasti e artisti di ogni genere e ogni orientamento ideologico - hanno pensato di poter costruire in terra il Paradiso perduto. Tra essi Robert Brasillach. Ed è stata spesso la loro rovina.

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