Bimbi del Golan. Se il dolore è un deserto

Guerra e infanzia: all'indomani dell'uccisione dei piccoli atleti

Bimbi del Golan. Se il dolore è un deserto
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Da ieri rifletto ardentemente su un fatto: come segregarmi in un vocabolario, come strozzarmi dentro filari di lettere e segni e punti per cavarne alfabeti nuovi, altre grammatiche e altre lingue con cui esprimere una sovversione, un'anomalia, una pace. Perché siamo in guerra. Siamo in un pianeta dove poche ore fa dodici bambini sono stati uccisi da un razzo mentre giocavano a calcio sulle alture del Golan.

Che pensare di questo? Ammesso che sia possibile pensare. Che fare oltre a sentirsi derubati di ogni consolazione? Una risposta forse l'ho trovata, a pagina 267 di un romanzo intitolato Il cardillo addolorato. «Vi è un dolore che supera in gravità e dimensioni il dolore degli intellettuali, degli innamorati delle riforme e perfino degli ansiosi di Costituzione» dice così, «un dolore non degli adulti, di cui sempre si parla, e a cui ci si riferisce generalmente pronunciando la parola magica: dolore».

Quando scrisse queste righe Anna Maria Ortese guardava all'infanzia. Di qualsiasi tempo e spazio. L'infanzia adamantina e fragile, l'infanzia per lei simile a un inferno bianco, l'infanzia-lager con annessa una sofferenza esclusiva, voluta dai cosiddetti grandi ma che i grandi non intendono. La ragione? «Perché il dolore è un deserto», leggiamo ancora. «E solo i fanciulli, nel mondo, possono conoscere il deserto». È quanto accaduto sul Golan in fin dei conti.

Quei bambini colpiti da Hezbollah sono proprio i «piccerilli», come li chiamerà sempre Ortese, i piccerilli del Medio Oriente che ci hanno avvertiti. Hanno tradotto tutta l'aridità della vita, l'hanno pronunciata di nuovo: sapremo ascoltarli?

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