Siria, se il mondo arabo va in frantumi sul secondo fronte russo

Si pensava che la guerra fosse ormai finita. Ma l'avanzata dei ribelli sulla seconda città siriana ha cambiato tutto. Creando parecchi problemi a Putin

Siria, se il mondo arabo va in frantumi sul secondo fronte russo

Le pareti degli uffici militari di Aleppo addobbati con immagini del Cremlino, contornate da bandiere russe e siriane appese una accanto all'altra. Sulle scrivanie, documenti, sino a poco prima riservati, che dettagliano la cooperazione tra le due nazioni. Abbandonati nella frettolosa ritirata delle forze di Bashar al-Assad mentre i ribelli si avvicinavano alla seconda città della Siria durante il fine settimana. Questo si vede in uno dei tanti filmati che circolano online. Nello specifico è stato registrato nell’ufficio dei consiglieri russi dell’accademia militare di Aleppo. Sarebbe difficile riassumere meglio che con queste immagini la crescente minaccia al regime di Assad e, per estensione, al punto d’appoggio strategico di Mosca in Siria e quindi sul Mediterraneo e sul Medio Oriente.

Aleppo era stata teatro di combattimenti feroci tra il 2012 e il 2016, quando la guerra civile siriana era al culmine. Nel 2016, un anno dopo che le forze russe si unirono al fianco di Assad, il leader siriano riuscì a riconquistare la città, costringendo i ribelli alla fuga. La presa di Aleppo da parte di Assad, dopo mesi di attacchi aerei con mezzi russi, fu ampiamente celebrata a Mosca, con l’élite putiniana smaniosa di rivendicare il successo militare. “Non c’è dubbio che la liberazione di Aleppo dagli integralisti islamici… è stata realizzata con il coinvolgimento diretto e decisivo del nostro personale in servizio”, aveva chiosato Putin in persona. Ora la situazione è radicalmente diversa con le forze dei ribelli che oggi, martedì 3 dicembre 2024, minacciano anche altre località come Hama o mentre gli insorti curdi dichiarano di aver occupato sette villaggi, tra le smentite del regime e i continui voli delle forze di Mosca per cercare di contenere l’avanzata.

Ma man mano che la posizione di Assad diventa vulnerabile, Mosca che lo appoggia si vede sempre più coinvolta in un fronte a rischio, il secondo teatro di conflitto dopo l’Ucraina. Se l’attacco a Israele da parte degli alleati dell’Iran - fortemente coinvolto nel supporto alla Russia – si era rivelato un secondo fronte capace di distrarre forze e aiuti occidentali dall’Ucraina ora Mosca si ritrova nella stessa situazione, ma con meno mezzi per fronteggiarla, in Siria. "La rapida caduta di Aleppo e l’estensione dell'offensiva a cui abbiamo assistito rappresentano sicuramente un duro colpo alla reputazione della Russia". Questa l’analisi ad esempio di Hanna Notte, esperta di politica estera russa presso il James Martin Center for No proliferation Studies, con sede a Berlino. L’asse Siria–Iran–Russia ha iniziato ad andare sotto pressione dopo il 7 ottobre 2023, quando Israele ha iniziato ad intensificare significativamente i suoi attacchi contro gli alleati di Assad nella regione, tra cui i militanti sostenuti dall'Iran in Siria e il gruppo libanese Hezbollah.

L'offensiva dei ribelli della scorsa settimana è avvenuta in un momento in cui l'Iran è indebolito dagli attacchi aerei israeliani, mentre il suo alleato sul terreno, Hezbollah - dopo 13 mesi di guerra con Israele e l'uccisione del suo leader, Hassan Nasrallah - è de facto decapitato e militarmente frantumato. Insomma la Russia aveva una presenza adatta a mantenere il controllo in una situazione in Siria che non comportasse scontri su larga scala, ma non aveva più le riserve di armi e uomini necessarie per gestire un'offensiva così improvvisa e massiccia.

Se l’Iran ha contribuito a destabilizzare l’ambiente con il 7 ottobre ora la destabilizzazione sta causando problemi a Mosca, problemi che sul lungo periodo potrebbero portare a compromettere anche la controffensiva russa in Ucraina. Una serie di attori come la Turchia, per niente vogliosa di trovarsi chiusa in una tenaglia russo–siriana hanno ampiamente approfittato della situazione. In generale ci sono forze sunnite di varia natura, alcune purtroppo anche molto radicali ed affini al terrorismo, che cooperano contro un fronte sciita ed anti israeliano, che non si fa alcun problema a giocare con movimenti di ferocia assoluta. Questa situazione evidenzia con chiarezza che quella che si sta combattendo è una guerra mondiale a pezzi, in cui conflitti distanti finiscono per diventare strettamente collegati, rinfocolandosi a vicenda.

Nello specifico della regione evidenzia alcuni fattori che spesso la politica europea, almeno quella che viene sventolata nelle piazze, trascura. Il primo è che non esiste più un conflitto propriamente arabo israeliano. Ci sono forze arabe (e non arabe visto che l’Iran ha una matrice culturale persiana) chiaramente schierate contro Israele e forze arabe, anche radicali, che considerano Israele ben lontano dall’essere il loro nemico primario. Anzi, in certi termini, i conflitti in corso potrebbero essere letti anche nella chiave dello scontro che contrappone un islam sciita ad uno sunnita. Questo scacchiere, che è stato messo in movimento da Hamas per procura iraniana (e moscovita?) in un momento in cui i rapporti tra Israele e il mondo sunnita erano particolarmente proficui, ora rischia di diventare una trappola per l’Iran stesso e i suoi alleati. Altrettanto per Mosca. Di certo è diventata una trappola per i civili palestinesi e libanesi trascinati in un conflitto senza speranza e usati spesso alla stregua di scudi umani. Non c’era nessuna vera solidarietà “pan araba”, al di fuori di prese di posizione di maniera, pronta a sostenere la Striscia, men che meno dopo un attacco a matrice terroristica. Questo al netto delle scelte israeliane, dove non sempre l’uso della forza è stato temperato dal buon senso diplomatico, se non etico, fatto che non favorisce il raffreddamento del conflitto.

In tutto questo l’Occidente si ritrova un problema non nuovo, parte delle forze che combattono in Siria contro il regime di Assad e gli alleati russi sono quanto di più lontano possa esistere dall’accettabile per i nostri standard etici e politici. In certi casi il detto “il nemico del mio nemico è mio amico” porta malissimo. Avrebbe dovuto insegnarcelo l’Afghanistan.

Diventa difficile in questo scontro per procura tutelare quello che le democrazie dovrebbero sempre tutelare, favorendo solo formazioni laiche e democratiche. Tanto più che in questo continuo allargamento di fronti la realtà è sempre più lontana dalle discussioni, in punta di fioretto, su cosa sia o non sia genocidio che si sviluppano in Europa.

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