Tensioni internazionali: cosa dobbiamo aspettarci nelle prossime settimane

A distanza di un mese, torniamo ad intervistare il generale Massimiliano Del Casale, per capire meglio non solo le reali intenzioni dell’Iran, ma anche quelle delle tre grandi potenze, USA, Cina e Russia

Tensioni internazionali: cosa dobbiamo aspettarci nelle prossime settimane

La prova di forza del regime degli ayatollah nei confronti di Israele costituisce il primo attacco militare portato direttamente contro Gerusalemme. L’Iran sta facendo sul serio?

Assolutamente sì. Un attacco via terra era completamente da escludere. Non vi erano, e non vi sono, le condizioni, prima di tutto, per ragioni geografiche. Un primo approfondimento condotto dall’israeliano Institute for National Security Studies, un think tank affiliato all’Università di Tel Aviv, assai accreditato negli ambienti internazionali che si occupano di geopolitica e di sicurezza, ha subito stimato come ben 85 tonnellate di esplosivo siano state lanciate verso Israele non solo dal territorio iraniano, ma anche dallo Yemen, dalla Siria e dall’Iraq. Si parla di circa 170 droni, 30 missili da crociera -sistemi d’arma che, per la loro bassa velocità, sono stati tutti intercettati ben prima di giungere nello spazio aereo di Gerusalemme- e 120 missili balistici, con tempo di volo di una decina di minuti. Dieci di questi ultimi avrebbero arrecato danni sensibili a due basi aeree situate, l’una, sulle alture del Golan, al confine con la Siria, e l’altra nel deserto del Negev, più a sud. Si tratta di un evento assai grave che consente di comprendere diverse dinamiche politico-militari in atto, gli atteggiamenti dei vari attori coinvolti e le reazioni che dovremo attenderci. Tuttavia, una prima valutazione complessiva delle capacità di difesa del Tsahal, le forze armate israeliane, consente di apprezzarne ancora una volta l’indiscussa efficacia.

Lei parla di attori coinvolti e fa riferimento agli effetti dell’attacco aereo iraniano. E’ evidente che non voglia alludere solo agli aspetti tecnico-militari.

È vero. Il confronto tra Israele e Iran ha prima di tutto visto gli Stati Uniti come sempre al fianco di Gerusalemme. Quanto accaduto il 13 aprile scorso non è un allargamento dell’attuale crisi israelo-palestinese, ma costituisce l’attraversamento di una “linea rossa” che è parte di quel confronto che si trascina dal lontano 1979, con l’avvento al potere degli ayatollah. Non dimentichiamo che l’evento nasce in risposta al bombardamento della sede diplomatica iraniana di Damasco. Ma è certamente la prima volta che l’Iran reagisce con un attacco diretto sul territorio di Israele, dimostrando di possederne le capacità. La strategia della “nuova equazione: ad ogni colpo inferto da Gerusalemme, risponderemo con un attacco diretto al suo territorio”. Una sorta di abbandono, quindi, da parte di Teheran della sua più congegnale shadow war (guerra nell’ombra). Una partita a tre, nella quale ogni contendente può oggi vantare di aver conseguito un risultato. Israele e Stati Uniti hanno messo in campo una superiorità tecnologica che non ammette discussioni. I caccia F-35 israeliani e gli F-18 americani hanno evidenziato un primato assoluto. Anche la difesa antimissile israeliana, basata su batterie “Iron Dome” (Cupola di Ferro), “David’s Sling” (Fionda di Davide), “Patriot” e soprattutto “Arrow” (Freccia) ha minimizzato l’offesa portata dai missili. Certo, i vertici iraniani hanno scelto con cura obiettivi esclusivamente militari, lontani da luoghi popolati. Ma sono sicuro che si aspettassero un esito più incoraggiante sul piano tattico. Alcuni osservatori hanno addirittura parlato di un flop. Concordo solo in parte, nella convinzione che l’Iran trovi maggiore dimestichezza, la sua confort zone, nel supporto alle milizie sciite sparse nella regione mediorientale, alimentando le varie guerre per procura (proxy war). Infatti, quasi a voler scongiurare una prospettiva di escalation, la stessa “guida suprema” Khamenei ha tempestivamente espresso l’auspicio che Israele e i suoi alleati desistano da ogni ulteriore reazione. Dal canto suo, il governo di Gerusalemme ha indossato, nell’occasione, i panni della vittima di turno, riscuotendo la solidarietà di tutto l’Occidente e non solo. Ha peraltro avuto confermato il pieno e incondizionato appoggio statunitense. Ma l’aspetto forse più significativo è stato vedere alla prova dei fatti il MEAD (Middle East Air Defense alliance), il sistema di difesa aerea regionale creato da Trump, presidente, all’indomani della firma degli Accordi di Abramo, che vede USA, Gran Bretagna e Francia cooperare con diversi paesi arabi, come Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrein e Giordania. E Amman ha fornito, nella circostanza, un contributo fondamentale alla difesa di Israele abbattendo moltissimi droni e missili “cruise” e suscitando, per tale ragione, la rabbiosa e minacciosa reazione di Teheran e delle milizie sciite presenti sui suoi confini orientali. Re Abdallah ha già replicato chiarendo che chiunque violi lo spazio aereo giordano verrà abbattuto. Che si tratti di un avvertimento anche per Gerusalemme, per porsi in una condizione di equidistanza nella crisi, lo scopriremo in futuro. Comunque, colpisce il ricompattamento dei paesi arabi sunniti, compreso l’Egitto, con la temporanea chiusura del proprio spazio aereo, nell’opporsi all’iniziativa di Teheran.

Ritiene che, dopo lo Shabbat del 7 ottobre, l’invasione di Gaza e questo attacco iraniano, stia cambiando la percezione di Israele nel mondo? Anche la Russia sembra aver condannato l’iniziativa di Teheran. Assistiamo a prove di dialogo con gli USA?

Sul piano politico, nell’Occidente, non si sono registrati cambiamenti sostanziali nell’appoggio al governo di Gerusalemme. L’attacco iraniano ha sicuramente rinvigorito il sostegno a Israele e al suo popolo. Diverso resta l’approccio nei confronti della crisi di Gaza. I distinguo sono molteplici. Vale la pena menzionare il “global South”, il Sud del mondo imperniato sul BRICS, il raggruppamento di economie mondiali che comprende Brasile, Russia, India, Cina e sud Africa per creare un’alternativa ai sistemi economico e monetario dell’Occidente. Non ha a suo tempo condannato Hamas per i fatti del 7 ottobre ed è notoriamente ostile al governo Netanyahu, dopo l’invasione di Gaza. La Russia, dal canto suo, non si è apertamente pronunciata contro l’attacco iraniano. Mosca è la più importante alleata del regime degli ayatollah, i quali riforniscono a piene mani l’arsenale russo nella guerra in Ucraina, ricevendo in cambio il supporto tecnico-scientifico per lo sviluppo del nucleare iraniano e per l’attività estrattiva delle materie prime energetiche. Putin non si è ancora espresso. Solo il suo ministro degli esteri, Lavrov, ha sottolineato come l’azione iraniana sia da considerare una legittima risposta all’attacco aereo israeliano su Damasco del 1° aprile scorso, invitando nel contempo le parti a desistere da una spirale di reciproche reazioni che finirebbero per incendiare davvero l’intera regione. Nei toni, un’esortazione piuttosto che un avvertimento, che tiene conto della diaspora israeliana in Russia, la più grande al di fuori dei confini nazionali, e della comunità ebraica russa che, da sola, rappresenta un quinto dell’intera popolazione di Israele. Se poi ci troviamo di fronte ad una prova di dialogo con gli USA ce lo diranno le prossime settimane. Personalmente, resto molto scettico. Di soluzioni diplomatiche alla crisi russo-ucraina non se ne vedono. E la condotta delle operazioni militari sta premiando la superiorità numerica dell’esercito russo. La c.d. “pace giusta” sta lasciando spazio a un’auspicata “pace possibile”: un segnale eloquente sul probabile esito della crisi, peraltro ampiamente previsto.

Generale, non ha ancora citato la Cina. Una semplice omissione o l’idea di un “non posizionamento” di Pechino?

Tra i grandi attori globali, Pechino si posiziona su di un piano che ha il sapore dell’ambiguità. Le preoccupazioni di Xi Jinping e del suo ministro degli esteri Wang Hi sono concentrate sullo sviluppo del BRI, la Belt and Road Initiative, il grande programma destinato a proiettare sui mercati occidentali i prodotti dell’industria cinese mediante il sistema di infrastrutture, terrestri e portuali, e di estrazione e stoccaggio di materie prime energetiche tese a favorire e sviluppare i traffici dall’estremo oriente ai grandi porti nordeuropei (Amburgo, Rotterdam e Anversa, su tutti). È di tutta evidenza come la crisi di Gaza, prima, e l’attacco iraniano, con tutte le sue possibili conseguenze, oggi, rallentino momentaneamente i ritmi di crescita economica di Pechino. La Cina è stata sinora protagonista nella regione mediorientale. Ha promosso la formale riapertura, avvenuta nell’aprile dello scorso anno, di un dialogo tra Iran e Arabia Saudita, capifila delle due anime -sciita e sunnita- del mondo islamico, dopo che lo scoppio della guerra nello Yemen, nel 2014, aveva visto i due paesi schierarsi su fronti opposti. Ha poi stretto accordi con l’Iran per assicurarsi forniture di gas e petrolio per i prossimi 25 anni, per un investimento di 400 miliardi di dollari. Ma si è legata anche a Riyad sulla base di un analogo investimento di 440 miliardi dollari. La Cina ha realizzato a Gibuti, nello Stretto di Bab-el-Mandeb, la più grande area portuale della regione e ben presto vedremo unità della marina militare cinese incrociare in quelle acque a tutela degli interessi (solo commerciali?) nazionali. L’interesse preponderante di Pechino è quindi la stabilità dell’area. Una postura internazionale imperniata su una sostanziale equidistanza dai particolari interessi in gioco.

Cosa dobbiamo aspettarci per le prossime settimane?

Nell’immediato, ritengo che non vi saranno ulteriori reazioni, sebbene Gerusalemme vada in queste ore affermando che una risposta sarà inevitabile. Tutti però la invitano alla calma. Sul piano tecnico-militare, starà di certo andando avanti, da ambo le parti, l’attività di targeting, cioè di scelta degli obiettivi da colpire in caso di escalation del confronto, in termini di remuneratività e di priorità. Ciò è alla base di qualsiasi pianificazione militare. Quindi, grande attività di intelligence sviluppata attraverso l’analisi delle comunicazioni (SIGINT), delle immagini satellitari (IMINT) e delle notizie mediatiche (MASINT). Molto meno, attraverso il ricorso alle fonti umane (HUMINT) che appare obiettivamente proibitivo, alla luce dell’attuale contesto sociopolitico interno di Israele e Iran. Sullo sfondo, la consapevolezza che l’Iran continuerà ad alimentare le guerre per procura, supportando le milizie fedeli, dopo aver preso atto della propria, palese inferiorità tecnologica rispetto agli israeliani e dell’appoggio che perennemente questi riceveranno dagli USA. Gerusalemme avrà sicuramente “messo nel mirino” il programma di sviluppo del nucleare iraniano, oggi giunto al 60% nel processo di arricchimento dell’uranio. La prospettiva è che l’Iran possa disporre dell’arma nucleare da qui a un anno. Inaccettabile sia da parte americana che israeliana. Ecco perché ritengo che i siti di Natanz, ove è dislocata la centrale nucleare vera e propria, e di Esphahan, ove è ubicato il centro di ricerca, siano i principali indiziati per quello che potrebbe essere il bersaglio più probabile per una futura iniziativa militare di Gerusalemme.

Un’ultima domanda. E l’Europa?

Direi che è la solita Europa. Tante espressioni di solidarietà e di comprensione, ma nei fatti solo Gran Bretagna e Francia han fatto alzare i loro caccia dalle basi aeree, rispettivamente, da Cipro e in Giordania per cooperare con gli americani e neutralizzare missili e droni iraniani. E dire che la presenza dell’Unione Europea nel quadrante mediorientale è tutt’altro che esigua. Tre missioni marittime, “Atalanta” in funzione antipirateria, al largo del corno d’Africa, “Aspides”, per la difesa dei traffici marittimi in transito nel Mar Rosso, attualmente a guida italiana, e la “EMASOH (European-led Maritime Awerness of the Streat of Hormuz)-Agenor”, di sorveglianza del traffico commerciale tra Golfo Persico e Oceano Indiano, che tuttavia non ha impedito ai pasdaran iraniani di abbordare e sequestrare, solo qualche giorno fa, proprio in corrispondenza dello Stretto di Hormuz, un cargo portoghese, la MSC ARIES, che navigava per conto di Israele. Disinteresse per la crisi mediorientale? Da escludere. Incertezza politica? Probabile. Differenti interessi politico-economici tra i paesi membri della UE? Molto probabile.

Mancanza di una politica estera condivisa? Assolutamente sì. D’altro canto, appare sempre più trascurata la stessa crisi russo-ucraina che minaccia ben più da vicino la sicurezza europea, con una Difesa comune che stenta sempre più a prendere forma. Ma questa è un’altra storia.

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