Quando in un'intervista gli chiesero che cosa l'avesse spinto verso la narrativa, lui rispose: «Il semplice desiderio di mostrare il culo, per poi pavoneggiarmi sulla stampa». Elliott Chaze (1915 - 1990) parlava schietto e scriveva schietto, come un soldato, come un cronista. Infatti era stato soldato ed era stato cronista, prima di «mostrare il culo» e di prendere qualche leccata ma anche qualche sculacciata. Pensava e scriveva, per esempio, a proposito della professione giornalistica: «Era un peso lavorare con un uomo che, qualunque fosse la situazione, non si comportava mai da figlio di puttana. Un giornalista, per funzionare al meglio, aveva bisogno del nutrimento emotivo del disprezzo per il proprio superiore». E, rivolgendosi proprio a quel collega a suo dire troppo corretto: «Devi metterti in testa di resistere fino a quando non smetterà di piovere merda. Fai finta di prendere tutto sul serio. Non sei costretto a credere in queste cose, capisci, devi solo sopportarle. Fai quello che ti dicono, anche se dentro di te pensi che siano dei coglioni». E in generale, dell'aria viziata che si respirava in redazione: «si stava arrivando al punto in cui sempre più giornalisti cercavano di comportarsi come i personaggi dei brutti film. Una volta i giornalisti nei film cercavano di imitare i giornalisti veri. Strano. Un giorno nessuno sarebbe stato in grado di ricordare come si comportavano i giornalisti autentici».
I «giornalisti autentici», pare di capire leggendo il romanzo noir-redazionale di Chaze dal titolo Goodbye Golia (Mattioli 1885, pagg. 205, euro 18, traduzione di Nicola Manuppelli) da cui abbiamo tratto i precedenti virgolettati, già non esistevano più, almeno negli Stati Uniti, nel 1981, con Reagan padre inquilino della Casa Bianca. Quando parlava dei «giornalisti autentici», Chaze si riferiva a quelli di Prima pagina, il film di Billy Wilder del '74 con Jack Lemmon e Walter Matthau, o a quelli di Tutti gli uomini del presidente del film di Alan J. Pakula del '76 con Dustin Hoffman e Robert Redford? Pensava alla commedia o al dramma? Chissà. Di certo non pensava alla storia grottesca che stava scrivendo, che oggi piacerebbe ai fratelli Cohen e a Quentin Tarantino.
In breve, come se fosse una notizia a una colonna o quasi: qualcuno, la vigilia di Natale, ha ucciso il direttore nel suo ufficio al The Catherine Call, infilandogli nel cranio uno spillone infilzacarte. Tutti in redazione, e anche tutti fra gli impaginatori e i tipografi, avevano almeno un buon motivo per odiarlo, compreso Kiel St. James, il 43enne «redattore cittadino», ovvero il capo della cronaca locale, dal punto di vista del quale si dipana la narrazione. A indagare è un vecchio amico di St. James il quale si atteggia a contadinotto ingenuo per stanare le sue prede. Dammi una mano, Kiel, dice il poliziotto. E Kiel lo fa, switchando con nonchalance dalla compagna alla più figa della compagnia, una ventenne reporter brava non soltanto a fare sesso.
Letto da un vecchio redattore che ha
sempre avuto in simpatia le maestranze dei piani bassi, quelli della zona inchiostro e trasmissione, per intenderci, Goodbye Golia ha un piacevole retrogusto vintage. Il direttore è morto, viva il direttore. Avanti un altro.
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