I cacciatori di eroi a El Alamein

"Scoviamo ciò che resta dei nostri padri martiri"

I cacciatori di eroi a El Alamein

La lapide è scolpita poco lontano dal sacrario di El Alamein. «Mancò la fortuna non il valore». Una data, il primo luglio 1942; una località, Alessandria, con l'indicazione della distanza (111 chilometri di strada costiera); un simbolo militare, il cappello piumato del settimo reggimento bersaglieri. Due battaglie campali, la prima a luglio, la seconda dal 23 ottobre al 2 novembre di 75 anni fa, che segnarono le sorti della seconda guerra mondiale, così come a Stalingrado dove si combatté nello stesso periodo, tra l'estate del 1942 e il gelido febbraio del '43. Il fronte mediterraneo e quello orientale furono i teatri bellici sui quali i soldati italiani mostrarono tutto il loro valore.

In Egitto e in Russia le campagne si chiusero con altrettante sconfitte per le forze dell'Asse Roma-Berlino. Ma se l'epopea del Don è legata alla ritirata e al coraggio disperato con cui i reduci strappavano un giorno dopo l'altro al crudele inverno russo, nel deserto egiziano la fama delle nostre truppe è rimasta sul campo di battaglia, tra le dune di El Alamein, nella depressione di Bab El Qattara, nelle sabbie di Munassib ed El Taqa. «Mancò la fortuna non il valore». Oggi alcuni gruppi di volontari appassionati, molti dei quali figli di reduci, si battono perché non sia cancellata la memoria e l'onore di quei caduti.

Sono cacciatori di eroi. È gente che non conosce rivendicazioni ideologiche, non è spinta da nostalgie fasciste o spirito militaresco, ma si muove sulle orme di Paolo Caccia Dominioni, l’ingegnere milanese che fu progettista, scrittore e alto ufficiale: combatté nella prima guerra mondiale sul Carso e nella seconda comandò il 31° battaglione Guastatori d’Africa proprio a El Alamein. Il suo reparto fu l’unico a sfuggire all’accerchiamento dell’esercito britannico; dopo il rimpatrio fu partigiano e nel dopoguerra venne incaricato di una ricognizione nel deserto. La missione durò 14 anni e culminò nella progettazione del Sacrario di El Alamein, costruito sull’area del cimitero di Quota 33 lungo il litorale egiziano.

Erano 54mila gli italiani impiegati sul fronte africano accanto a 49mila tedeschi dell’Afrika Korps guidati dal feldmaresciallo Erwin Rommel, la «Volpe del deserto». Di fronte avevano 200mila uomini dell’ottava armata britannica; 50 panzer corazzati contro 400. Dei 5.000 paracadutisti della Folgore sopravvissero soltanto in 304. La storia apocrifa degli scontri attribuisce una frase lusinghiera a Bernard Montgomery, il generale britannico che ebbe la meglio: «Se gli italiani avessero avuto i nostri mezzi, avrebbero vinto».

SOLDATI DIMENTICATI

Il Sacrario accoglie le spoglie di 5.200 militari italiani e 232 ascari libici. Ma sono ancora migliaia i soldati dimenticati nella sabbia del deserto. Il lavoro di Caccia Dominioni, proseguito dall’attendente Renato Chiodini, non poteva dare una sepoltura a tutti. Così dalla fine degli Anni 90 si sono formati alcuni gruppi di volontari che, a proprie spese, si sono più volte recati sulla costa settentrionale egiziana in missioni di ricognizione, mappatura, schedatura e recupero di oggetti che appartenevano ai caduti.

Il dottor Daniele Moretto è un anestesista di Bologna. L’associazione che ha messo in piedi ha una sigla che fotografa la desolazione della distesa di sabbia: Arido (Amici e ricercatori indipendenti deserto occidentale). «Siamo storici, cartografi, geologi, geografi, medici legali, militari in carriera – racconta -. Io sono figlio di un reduce della divisione corazzata Ariete. Da bambino ascoltavo i suoi racconti. Dal carro di mio padre Giulio partì l’ultimo messaggio al comando tedesco. Sono andato nel deserto la prima volta attorno al 2000. Ero in vacanza al mare, all’epoca la costa mediterranea dell’Egitto era in grande crescita; ma la vista di quei luoghi mi ha cambiato la vita».

Da cosa nasce cosa: Moretto ne parla con qualche amico, le spedizioni si moltiplicano, si crea un sito internet (www.qattara.it) per diffondere foto e resoconti, si allarga il campo degli appassionati. «Avevamo fondato anche un’associazione - dice il medico bolognese - che però in seguito abbiamo chiuso. Non abbiamo più chiesto quote di iscrizione, non è giusto pagare per queste cose. Chi vuole viene, non riceviamo contributi, tutto autofinanziato. Ora siamo circa 150-200 appassionati, una trentina quelli che lavorano più da vicino».

RICERCHE E MAPPE

Una decina d’anni fa ci si muoveva con relativa facilità in Egitto. Il gruppo ha ottenuto sostegno dall’ambasciata, dall’istituto di cultura al Cairo, dalla scuola Leonardo da Vinci per gli italiani che vivono laggiù, dal Commissariato generale per le onoranze ai caduti. Con l’istituto di medicina legale dell’università del Cairo avevamo un accordo per identificare i resti umani ritrovati. «Noi però non facciamo scavi né riesumazioni – spiega Moretto –, ci limitiamo a svolgere ricerche, mappare la zona e segnalare alle autorità. In base ai racconti e alle documentazioni di guerra ci siamo recati nei luoghi dove presumibilmente si erano svolti eventi bellici. Abbiamo trovato 12 cimiteri, quasi tutti italiani e sfuggiti al lavoro di Caccia Dominioni. E alcuni risparmiati anche dalle scorrerie dei beduini».

Già, i beduini. «Ci fanno da guide e ad alcuni di loro abbiamo dato in custodia i mezzi comprati nel tempo: jeep, tende, strumenti di ricerca. Ma quella non era la loro guerra, gli egiziani vi hanno assistito, gli sciacalli del deserto hanno depredato tutto quanto poteva essere rivenduto. Le fonderie egiziane hanno lavorato fino a 15 anni fa con le lamiere recuperate tra le dune. Eppure i nostri beduini sono stati di grande aiuto a ritrovare resti di fortificazioni, trincee, rifugi e anche le buche individuali dove i soldati passavano molto tempo. Per ripararsi dal tiro nemico circondavano la buca di pietre. E in mezzo lasciavano lettere per i familiari. Ne abbiamo ritrovate moltissime in condizioni perfette; alcune le abbiamo portate ai parenti.

Anche sulle piastrine militari svolgiamo ricerche nelle anagrafi comunali e tra i ruolini; se possibile le consegniamo a figli o nipoti. È il momento più toccante del nostro impegno, quello in cui ci sentiamo più utili. Perché a noi, oltre alla vicenda storica, interessa il lato umano. Chi erano i nostri militari, come vivevano, a chi pensavano». Finché è stato possibile quelli di Arido hanno svolto tre o quattro missioni all’anno. Hanno trovato il comando della divisione Pavia presso il Gebel Sahnur e l’ospedale inglese sotterraneo di Qaret el Abd intatto, con i fogli di ricovero e i medicinali; carcasse di mezzi blindati e di jeep, armi e un caccia britannico, un Curtiss P40 E Kittyhawk. Moretto e amici sono risaliti al pilota, il sergente inglese Dennis Copping, e dalla rotta che doveva compiere hanno ipotizzato che avesse abbandonato il velivolo fuggendo da disertore.

Hanno ripercorso una pista verso un’oasi distante una quarantina di chilometri dal relitto e dietro una roccia hanno ritrovato ossa umane e brandelli di paracadute. Le autorità britanniche cui hanno segnalato la scoperta hanno fatto sparire tutto. Il monomotore invece è stato collocato nel Museo della guerra di El Alamein.

DESERTO OFF LIMITS

Dal 2014 il deserto è stato chiuso ai turisti. I padroni sono i trafficanti di droga, i mercanti di armi e i terroristi. La strada da Alessandria è percorribile a rischio di agguati e attentati. Molte delle attrezzature di Arido sono andate perdute: «In questi anni avremmo superato i 200mila euro di spese ma un calcolo preciso non è stato fatto». L’attività si è spostata dai teatri di guerra agli archivi e alle ricerche documentali. «Abbiamo costruito un sistema multimediale con immagini aerofotogrammetriche e creato ipertesti per comparare la situazione di allora con quella attuale – spiega Moretto -. Molti parenti di dispersi in Africa ci scrivono anche dopo oltre 70 anni e nel 60 per cento dei casi possiamo fornire loro informazioni.

Se studiando le carte troviamo qualcosa di interessante comunichiamo le coordinate geografiche ai nostri corrispondenti beduini che effettuano le ricerche sul campo. La maggior parte degli oggetti è in superficie; noi fotografiamo, redigiamo una mappa e segnaliamo alle autorità. Non portiamo via nulla». A 75 anni da quei combattimenti, anche il Sacrario di El Alamein rischia l’abbandono. «Non è colpa delle autorità egiziane, che lo mantengono in modo ineccepibile – assicura Moretto – ma è conseguenza della chiusura della zona. Un tempo c’erano centinaia di visitatori. È l’unico dei quattro mausolei bellici di proprietà egiziana: i terreni per i monumenti inglese, tedesco e greco furono donati dal Cairo ai rispettivi Paesi, mentre il nostro è in concessione per 99 anni. Il tricolore sventola soltanto all’interno.

Mubarak aveva promesso a Prodi che ce lo avrebbe ceduto ma non se n’è fatto nulla. Fu il presidente Ciampi a riaprire questa pagina di storia nel 2002, visitando El Alamein nel 60° della battaglia. E a rendere l’onore dovuto ai caduti».

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