Il dibattito strampalato attorno all’emendamento leghista sul test pre-selettivo a base regionale per gli insegnanti, è il primo dono avvelenato che il fantomatico «Partito del Sud» porta in dote al governo. Se dal Sud un pezzo di classe politica alza la voce in nome di un riequilibrio di attenzioni e risorse da parte dell’esecutivo, questo produce un effetto uguale e contrario da parte della Lega, che deve rivendicare il suo posto nella maggioranza e il suo ruolo di tutore degli interessi della «questione settentrionale». Da una parte si chiedono più soldi per il Meridione, dall’altra si rivendicano misure per tutelare l’identità culturale del Nord. Avvitandosi in questo modo, il federalismo può generare, prima ancora degli esiti legislativi, una spaccatura nelle opinioni pubbliche destinata a rinfocolare antichi pregiudizi superati dalla storia nazionale.
Della Lega sappiamo molto, anche che il comportamento parlamentare dei suoi dirigenti è molto più responsabile di alcune prese di posizione, a volte eccentriche o offensive, che vengono utilizzate retoricamente come camera di compensazione tra le rivendicazioni della base elettorale e la condotta misurata della Lega nel potere romano. Del Partito del Sud sappiamo ancora troppo poco per sapere se si tratta di un espediente interno al centrodestra per calmierare la vocazione nordista di qualche ministro, di un progetto politico destinato a consumare i suoi effetti in Sicilia, o di un soggetto trasversale che tra gli alfieri del meridionalismo imbarchi anche quei governatori di sinistra, da Bassolino a Loiero, che hanno enormi responsabilità nel naufragio delle ambizioni meridionali.
È certo, però, che nelle regioni meridionali oggi esiste una profonda insoddisfazione, un’ansia di riscatto, una rabbia sociale che, soprattutto nelle fasce giovanili, non trovano ancora una vera rappresentazione politica, come in passato è successo quando intere città si sono affidate alla furia di qualche capopopolo. Lo spazio per un’imprenditoria dello scontento è enorme. Ciò deve far riflettere il Popolo della libertà sull’esigenza di costruire rapidamente il proprio radicamento organizzativo e identitario in quelle regioni meridionali dove la debolezza della società civile, l’anemia del senso civico e lo sradicamento della speranza come fatto collettivo attivano nel singolo cittadino la sindrome del si-salvi-chi-può e lo lasciano in balia dei singoli detentori del potere politico locale. Un neomeridionalismo davvero serio dovrebbe partire da questo presupposto, di ordine etico e civile, da porre come tema urgente al potere politico. Una missione gigantesca, che richiede coraggio, capacità autocritica, immaginazione politica, rifuggendo gli stereotipi in cui il Mezzogiorno ha dondolato per troppo tempo i limiti strutturali delle sue classi politiche e intellettuali.
Invece le cose sembrano marciare in una direzione diversa. Possiamo sbagliarci, ma fino a oggi il confronto alla sacrosanta esigenza di un neomeridionalismo moderno e modernizzatore che riporti il Mezzogiorno a essere centrale nell’agenda politica, si è sviluppato lungo un binario pericoloso, per non dire un binario morto: quello che esaurisce i problemi nella sola dimensione economicistica del budget, reclamando denari senza spiegare perché in passato sono stati spesi poco o male o senza riflettere su decenni di malgoverno, o magari li ripropone nella solita storia a sfondo veteroborbonico dell’unità nazionale malassortita e del Sud rapinato e impoverito dai sabaudi romanizzati.
Il Sud è una sfida politica capitale. Va strappata il prima possibile ai conati identitari della Lega e alle rivendicazioni economicistiche dei neoleghisti dell’altro emisfero che, come tutte le fotocopie, rischiano di essere peggio dell’originale.
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