Cesare G. Romana
da Milano
Vecchi, brutti e cattivi? Certo che sì. E per fortuna. Nessun giovanilismo furbesco, nessun ammiccamento alle mode vigenti, nel nuovo album dei Rolling Stones che, dopo otto anni di silenzio creativo, irromperà sulla scena mondiale il 2 settembre. Presentato ieri, con un mese e una settimana danticipo, secondo laureo principio che «chi ha tempo non aspetti tempo», il disco sintitola A bigger bang, con civettuolo riferimento al botto che provocò lorigine delluniverso: scelta forse autoironica e forse non priva di legittimo orgoglio. Ché venne proprio da loro il botto che, allalba degli anni Sessanta, partorì il rock del futuro: quando i Beatles seducevano i giovani con le loro melodie al lattemiele, e Bob Dylan girava lItalia in autostop, esibendosi al Folkstudio davanti a una decina di persone.
Fu allora che their satanic majesties, le loro sataniche maestà, sconvolsero milioni di giovani, con la loro musica ineducata, pagana e gagliardamente umorale. Nutrita di sympathy for the devil e di blues, la musica appunto del diavolo. Ora quel botto salutare riecheggia, a suo modo, in questo bigger bang dove gli Stones paiono recuperare la loro anima blues, pochissimo corretta dallinevitabile saggezza degli anni. Vitalità che debella le leggi della natura, o non, piuttosto, il sigillo della classicità che, come il diavolo, non invecchia mai? Forse entrambe le cose, a giudicare da queste nuove canzoni proposte ieri alla stampa, nel solito clima da controspionaggio, in uno di quei preascolti un po carbonari e un po surreali, che non giovano allapprofondimento e rendono arduo il mestiere del critico. Ma offrono qualche ghiotto dato di cronaca: per esempio dopo avere polverizzato, nellultimo tour, ogni record di incassi, i Cinque ne stanno allestendo uno nuovo, galattico e, stando alle prevendite, trionfale. Con partenza da Boston il 21 agosto, e approdo in Europa tra un anno esatto.
Il disco? Si parte col rhythm and blues, smargiasso e impaziente, di Oh no, not you again, sapproda alle chitarre invasate di Rough justice - molto radio oriented, ma pazienza - e lavvio è folgorante, si torna alla Londra animosa dei Mayall e dei Korner, nel cui utero nacque lepopea rollingstoniana. E Mick Jagger canta da dio, come già sapevamo e mai avevamo sentito. Poi, imprevedibilmente, Streets of love sterza verso le sognanti atmosfere di Lady Jane: niente dulcimer né clavicembalo, stavolta, ma le chitarre arpeggiano garbate, la voce di Jagger canta con attonita sensualità, subentra un passionale crescendo e subito Richards lo stempera nel tema grave e lento della chitarra. In Let me down slow il tratteggio è un po ovvio, ma basso e batteria scalpitano, e le chitarre ricamano, sincopate e lievi, tenere trine. Preparandoci alle zaffate possenti di It wont take long, e ai portamenti languidi di Back of my hand: atmosfera anni Cinquanta, Jagger che esordisce da crooner perfetto e prosegue da bluesman sfrontato, il clima è da pub di Soho con fumo che sale e whisky à gogo. Eccola, lacre teatralità rollingstoniana: reiterata poi in Laugh? I nearly dead, con Jagger in stato di grazia, un po Schweick e un po Mackie Messer. Cosicché gli si perdona, ai cinque mariuoli, anche una ballatetta a pronta presa come Biggest mistake of my life, facilina e un po facilona.
Anche in grazia di Rain fall down, ritmo in levare, clima caraibico, Mick sfrontato come non mai e un riff ossessivo a garantire lacconcia punteggiatura. O di She saw me coming: ché qui tornano, invitti, i vecchi Stones, con lantica ruggente vitalità, lamore per la musica del diavolo, sporca e dannata.
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