I repubblicani travolti dallo tsunami elettorale

Al di là delle attese la vittoria dei democratici: maggioranza schiacciante alla Camera e di misura al Senato, dove però si andrà alla nuova conta dei voti per il seggio in Virginia

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Qualcuno, scherzando o affidandosi alla scaramanzia, aveva espresso alla vigilia delle elezioni di martedì un ottimismo molto scettico sulle possibilità che l’opposizione facesse il pieno nei due rami del Congresso. Per la Camera, aveva detto, abbiamo buone speranze, ma per portarci al Senato ci vorrebbe uno tsunami. E tsunami è stato, oppure un’«onda» sui generis, non fatta d’acqua, ma di vento e di sabbia, proveniente da una direzione ben chiara: Sud-Est, dove si incontrano i fiumi della Mesopotamia e donde soffia lo scirocco. Insomma, dall’Irak. Un afflusso d’aria costante, e di sabbia corrosiva che ha bloccato molti degli ingranaggi della campagna del Partito repubblicano.
I risultati «bruti» dicono quasi tutto, ma appunto, quasi. Alla Camera, obiettivo considerato alla vigilia più facile, il partito d’opposizione aveva bisogno di strappare ai repubblicani almeno 15 seggi sui 435 per trasformare una maggioranza «rossa» in una «blu». Se ne sono portati a casa 34 o 35, e adesso godono di un margine che si avvicina ai 40. Il vento li ha portati avanti un po’ in tutte le regioni, meno che nella «Bible Belt» del profondo Sud, molto nel Nord-Est e nelle regioni industriali dei Grandi Laghi, parecchio, ed è la novità, nel Far West.
I repubblicani hanno dovuto così restituire il terreno che avevano guadagnato dodici anni fa con la famosa «rivoluzione conservatrice» guidata da Newt Gingrich; ma non si tratta degli stessi seggi. L’offensiva repubblicana si concentrò infatti sul Sud e sulle aree rurali del Midwest, mentre il «riflusso» democratico investe altre aree; col risultato che gran parte delle «vittime» sono state repubblicani «moderati», mentre è rimasto abbastanza intatto il nocciolo duro dei conservatori. Sono moderati, di conseguenza, buona parte dei debuttanti sotto la bandiera blu, anche se la leadership resta nelle mani della sinistra «liberale» che va ad occupare le posizioni chiave nel nuovo Parlamento. A cominciare naturalmente da Nancy Pelosi, l’italoamericana di San Francisco, conosciuta per il suo discreto ma molto caldo attaccamento alla patria d’origine, che diventa presidente della Camera, un luogo di grande potere e che offre soprattutto ottime possibilità di ostruzionismo. Particolarmente se è nelle mani di qualcuno ideologicamente molto motivato: Nancy esprime politicamente San Francisco, la città più sofisticata, più snob, più multietnica, più eccentrica, in cui il gruppo etnico più numeroso è quello cinese, la capitale mondiale degli omosessuali, che si sposano in velo bianco sullo scalone del municipio e il cui sindaco, ai tempi del grande scontro diplomatico fra Stati Uniti e Francia all’Onu prima della guerra in Irak, si presentò al consolato francese per manifestare la solidarietà propria e della città. L’afflusso di compagni di partito più moderati potrebbe ammorbidirla, ma fino a un certo punto. Uno dei problemi di Bush sarà appunto come mantenere un decente rapporto con lei. Il leader repubblicano uscente, Hastert, ha già fatto sapere che non se la sente di affrontarla, e rinuncia alla carica.
Il Senato è però la preda più importante, anche perché la più sofferta per una notte elettorale che è durata fino al tramonto del giorno dopo. I democratici avevano bisogno di conquistare 24 dei 33 seggi in palio, e dunque di strapparne almeno 6 ai repubblicani. E così è accaduto, ma col contagocce. Molto più politicizzata delle elezioni alla Camera, quella senatoriale ha visto cadere personaggi noti, tutti repubblicani naturalmente, dal religiosissimo Santorum della Pennsylvania al laicissimo Chafee del Rhode Island (cui non è bastato neppure aver votato contro la guerra in Irak), ai due che se l’aspettavano meno, nel remoto Montana (900 voti di distacco appena, penultimo seggio assegnato) e in Virginia, dove il veterano senatore Allen, che già pensava alla campagna presidenziale del 2008, è stato tallonato per tutta la sera da un personaggio non comune, James Webb: eroe della guerra in Vietnam, autore di romanzi e di risposte molto crude ai contestatori del tempo (in particolare una di lessico goethiano a un’agitatissima Jane Fonda), ministro della Marina nell’amministrazione Reagan, diventato democratico per opposizione alla guerra in Irak. E superato proprio sul traguardo con 9mila voti di distacco su due milioni di schede. Le conteranno di nuovo, per scrupolo, e per questo il risultato non è ancora ufficiale; ma ci sono ben pochi dubbi, ed è proprio quella di Webb la vittoria decisiva che mette fine a dodici anni di controllo repubblicano del Congresso.
Ma la messe più generosa i democratici l’hanno raccolta nelle contemporanee elezioni per i governatori. Trentasei Stati in palio su 50, in totale erano indietro 22 a 28, adesso sono passati avanti quasi nella stessa misura. E hanno assunto il «governo» di diverse decine di milioni di americani, in molti Stati popolosi.

Gli è sfuggita la California, feudo intoccabile di Arnold Schwarzenegger. Peccato che non sia nato in America, e pertanto non possa gareggiare per la Casa Bianca. Altrimenti i repubblicani avrebbero già pronto il loro Vendicatore.

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