I rischi della concorrenza a tutti i costi

di Quando il 31 dicembre del 1991 la bandiera rossa con falce e martello si ammainava al Cremlino, un intero mondo finiva. Non solo comunista. Anche il socialismo europeo - subìta negli anni ’80 la crisi dello Stato fiscale - cambiava orizzonti e considerava non più auspicabile l’idea di estendere la sfera pubblica dell’economia. La concorrenza non era più male minore bensì motore principale dello sviluppo pure delle persone. Ora il problema è che anche la libertà economica non diventi feticcio ideologico ma scelta realistica. Le società sono come le navi: se le affidi solo ai computer e non a capitani consapevoli di avere a che fare con uomini in carne e ossa, finiscono per naufragare.
La competizione è più che mai indispensabile per l’Italia: quel che la favorisce è benedetto ma non tutto è subito e concretamente possibile. Le nostre imprese non competono solo sul mercato interno, anzi con il consolidarsi dell’integrazione europea, la sfida principale è almeno comunitaria. Le nostre società dell’energia non tengono il campo solo su scala nazionale, devono misurarsi - lasciamo perdere russi e arabi che pure pesano - con società statali francesi, società pubbliche tedesche. Anche il confronto con gli operatori inglesi deve tenere conto di forme di proprietà diffusa grazie a un mercato azionario efficiente che danno stabilità alle imprese e al sistema nazionale.
Le semiliberalizzazioni dell’energia decise qualche anno fa da Pier Luigi Bersani sono servite ad aprire spazi utilizzati innanzi tutto da società controllate da Carlo De Benedetti, ma hanno dato qualche colpo alle imprese italiane in campo globale. Il basso costo dell’energia francese nasce dagli investimenti statali nel nucleare più che dalla concorrenza: da noi affossato l’atomo dal referendum, vanno studiate scelte sistemiche alternative (anche con consorzi di imprese per gestire centrali e gassificatori) da accompagnare a più competizione. Liberalizzare «i binari» è giusto ma è un problema che le ferrovie francesi possano sostenere competitori della nostre Ferrovie di Stato senza vi sia vera reciprocità.
Pur continuando a criticare Antonio Fazio, va rilevato come Bnp-Paribas non abbia portato alcun vento di liberalizzazione in Bnl (e abbia invece sostenuto il sistema francese contro quello italiano nel momento dell’attacco al nostro debito sovrano) mentre la ventata liberalizzatrice che doveva venire da AbnAmro si è dimostrata un fallimento: e alla fine Lodi e la sua Popolare (nonostante l’avventuriero Giampiero Fiorani) si sono rivelati ben più solidi dei «calvinisti» olandesi.

Forse per liberare il sistema bancario italiano bisognerebbe riflettere innanzi tutto sul fallimento delle fondazioni bancarie nella governance di Unicredit e Monte dei Paschi: magari consentendo per un periodo allo Stato di definire un sistema più competitivo come nella post-thatcheriana Gran Bretagna. A meno che, con Salvatore Bragantini, si preferisca prendersela con la pagliuzza «Ligresti» trascurando la trave «fondazioni».

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