Gli innocenti gettati in foiba che nessuno ricorda mai

Un viaggio in Veneto al bordo degli abissi nascosti dove vennero giustiziate decine di persone

Gli innocenti gettati in foiba che nessuno ricorda mai

Il freddo delle prime ore del mattino ti accompagna lungo i filari di olivi. Qualche centinaio di metri e si entra in un fitto bosco. I piedi calpestano piccoli rami che scricchiolano e ti conducono fino alla prima foiba, un buco stretto e lungo che si inabissa nel terreno e che porta chissà dove. C'è solo il buio e il silenzio più profondo. Un'anima pietosa ha messo una croce e una targa: «Carsici baratri profondi e scuri / custodi involontari / di abominevoli vergogne». Niente più. Chi, per sbaglio, dovesse passare da qui non immaginerebbe mai che, per anni, quella foiba ha custodito i resti di una famiglia. Perché di questa storia, a Gambugliano, in provincia di Vicenza, si fa ancora fatica a parlare.

Aprile 1945. La guerra sta ormai per finire anche se nessuno lo sa. Il 5 di quel mese i partigiani si presentano a casa di Guerrino Tescari che, in quel momento, si trova insieme a sua moglie Assunta, a suo figlio di tredici anni, Angelo, e ad altre quattro figlie. Gli uomini con la stella rossa gli puntano il mitra addosso e gli ordinano di seguirlo. Lo seguono la moglie e il piccolo Angelo, che non vuole lasciare mamma e papà. I partigiani li tengono prigionieri e poi, all'incirca a metà del mese, li ammazzano e li gettano nella foiba di Monte San Lorenzo, insieme ad altre dodici persone e a mucchi infiniti di rifiuti. Rimangono lì fino al 1950 quando vengono riesumati e viene data loro sepoltura. È una delle tante vendette, compiute negli ultimi mesi di guerra e in quelli immediatamente successivi, che colpiscono il vicentino. Odio chiama odio. Sangue chiama sangue. Alle mattanze fasciste e nazionalsocialiste si aggiungono ora quelle dei partigiani. Spietate. A volte pari, a volte superiori, - ammesso e non concesso che si possa fare una classifica degli orrori - di quelle dei loro nemici.

A cinquantacinque chilometri a nord da qui, a Tonezza del Cimone, un'altra foiba, a vedersi più inquietante. Una grotta, in una buca piena di foglie, è ricoperta di muschio fradicio. Poco più in là, ormai tappato, l'ingresso della foiba vera e propria, quella in cui vennero cacciati diciotto soldati tedeschi, che erano stati catturati nel sonno; un milite della Guardia nazionale repubblicana, fatto prigioniero insieme alla sua fidanzata; e un prete ortodosso che, una volta preso, piange come un bambino innocente che viene ingiustamente punito. La ferocia è tanta e tante sono le storie che questa terra nasconde. La guerra, in questo caso, è già finita. Il 29 aprile, a Pedescala, i militari nazionalsocialisti vengono fatti prigionieri dai partigiani del Battaglione "Cirillo Bressan" della Brigata "Pasubiana" gruppo "Garemi". Passa poco più di un giorno all'interno di un bunker e poi vengono portati a Tonezza. Sono ormai dei cenci umani. Vengono fatti sfilare sotto le case del paese e non stanno in piedi. Un tedesco, in un italiano zoppicante, prega i partigiani di rispedirlo a casa dove lo attendono i suoi tre figli. Non c'è nulla da fare. Chi, provando un po' di pietà, tenta di intercedere per lui viene minacciato di finire in foiba. Don Antonio Lovato, il parroco del Paese, viene chiamato ad assistere alla mattanza. Il prete ortodosso si aggrappa alla sua sottana, le sue dita gli scavano le carni. Non vuole morire. Non se lo merita quel pastore d'anime, finito a invocare Dio tra le armi.

I partigiani staccano i due uomini di fede e scaraventano l'ortodosso nella foiba. Don Lovato vede compiersi il massacro, poi se ne va. È turbato ma non si lascia intimorire. La domenica successiva, dal pulpito, denuncia le violenze dei partigiani. Viene trasferito e sostituito da un altro sacerdote coraggioso, don Giuseppe Marcazzan, che scriverà più volte non solo della strage, ma anche del clima, pesante e terribile, che si vive a Tonezza negli anni immediatamente successivi alla guerra, dove i partigiani, spesso legati alle ali più estreme della rivoluzione comunista, girano per strada utilizzando le giacche, con tanto di fori di proiettili, delle persone che avevano ammazzato, e i loro stivali. Non tutti, però, vengono ammazzati prima di essere infoibati.

Alcuni vengono gettati vivi nei 43 metri di voragine, tanto che i testimoni raccontano che per giorni si sentono voci e lamenti provenire dalla terra. Ma non c'è più nulla da fare. Solo aspettare. I resti di una vittima vengono trovati appoggiati a una parete della cavità, segno che, probabilmente, dopo la caduta era ancora viva.

Poco più di trentasette chilometri dividono Tonezza dalla foiba di Lusiana, il buso dea Spaluga, una voragine che si spinge fino a centinaia di metri di profondità e dove, durante la Prima guerra mondiale, finì un camion pieno di militari italiani in licenza. Buso, non è difficile da comprendere, significa buco in dialetto vicentino. Più difficile, invece, è il termine Spaluga, che deriva dal sassone e indica il luogo dove vengono gettate le cose più immonde. Due voragini, protette in parte dal filo spinato, ma per la gran parte della loro estensione esposte. Affacciandosi su di esse, si sente la terra tremare sotto i piedi. Ci si appoggia alle piante, per cercare di vedere cosa nascondono le rocce, ma si può solo immaginare. Esporsi è troppo rischioso. Don Antonio Dall'Olio, parroco di Lusiana, è uno dei primi a raggiungere i poveri resti qui raccolti. Il primo cadavere che incontra è quello del «Congo Belga, un borghese così soprannominato dagli amici marosticani». Incappa poi in due soldati tedeschi, «in perfetta posizione d'attenti e perfettamente affiancati, in uniforme militare, anche loro intatti. (...) Quasi sicuramente, quei due erano giunti nel fondo vivi, coscienti, con le gambe sanissime: morirono fissando la luce diretta dopo un salto di cento metri». L'acqua leviga e consuma. Non solo la roccia, ma anche i cadaveri e, infine, le ossa. Tra i morti c'è anche una ragazza. La raccontano bellissima, anzi: la più bella di Lusiana, ed era desiderata da tutti, con quei boccoli in testa e quegli occhi profondi come la terra che l'avrebbe inghiottita. Si chiamava Ortensia Morras e lavorava alla mensa della Todt. Nel tempo libero, come tutte le ragazze di vent'anni di ieri e di oggi, amava ballare. E, soprattutto, amava amare. Nel suo caso l'attenzione cade su un tedesco, ovviamente ricambiata. I due si piacciono, si frequentano, mentre le bombe piovono e i mitra cantano. Probabilmente si concedono anche l'uno all'altra, trovando un po' di pace nella guerra. Ma Ortensia è troppo bella. E così, qualcuno tra i partigiani comincia a far girare la voce che è una spia dei tedeschi. Gli uomini con la stella rossa la accerchiano, le dicono che quel ragazzo con la divisa di un altro Paese non deve più frequentarlo. Che tra loro è finita. Ma Ortensia lo ama e non lo vuole abbandonare. Costi quel che costi. Anche la vita.

Il 10 marzo del 1945 è il suo ultimo giorno. Cammina, come tutti i giorni per tornare a casa dal lavoro. Viene affiancata dai partigiani che la portano al buso dea Spaluga. La torturano, perché la sua bellezza svanisca. La violentano, per strapparle il corpo che aveva per tanto tempo tenuto per sé; infine la gettano viva nella foiba perché abbia tempo per soffrire. Una ragazzina racconterà di aver sentito le sue urla strazianti provenire dal nulla. Morirà, Ortensia. Non sappiamo né quando né come.

Ma i suoi resti, insieme a quelli di tutti gli altri, vennero riesumati solo tre anni dopo, nel 1948.

Su quella che sarà la sua bara, quattro tocchi di legno messi insieme, vengono scritte solo due parole: «Ragazza bionda». Anche se era la bellissima Ortensia Morras.

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