Uguaglianza di genere. Da diversi giorni sulla tivvù di Stato viene mandato in onda uno spot tipo «pubblicità progresso» (sic!) secondo cui è ormai certo che l'uguaglianza di genere fa bene alle istituzioni cui viene applicata. È una bufala, peraltro pagata da tutti noi. Indecente. Fossi una donna, darei senz'altro ragione all'onorevole Santanchè, la quale ahimè pressoché sola ha avuto il coraggio di affermare il diritto delle parlamentari a essere scelte per le loro capacità e non per la loro semplice appartenenza al genere femminile. Giustamente, conta il merito, non la tutela della riserva indiana. I ruoli devono essere conquistati sul campo, non per tutela legale. Piuttosto, sarebbe necessario porre le donne nelle stesse condizioni «di partenza» per concorrere a tali posizioni. Ma questa è un'altra storia. La bufala propagandata dalla pubblicità di Stato riguarda le quote rosa nei consigli di amministrazione, imposti dalla legge 120, entrata in vigore lo scorso anno.
In barba a quanto propinatoci in tivvù, sui vantaggi associabili all'uguaglianza di genere nei consigli di amministrazione non v'è alcun consenso. Segnalo, a mero titolo di esempio, una bella rassegna di Daniel Ferreira (Lse) su Board Diversity (2011) nella quale si dà evidenza della forte incertezza che ancora circonda il contributo delle donne ai risultati delle società nei consigli di amministrazione siedono. Molto più modestamente, nell'ambito delle attività dell'Osservatorio M&A dell'Università Bocconi, il sottoscritto ha realizzato una ricerca pubblicata di recente condotta su 468 società quotate italiane e circa 5000 consiglieri di amministrazione per il biennio 2010-2011. Ebbene, la presenza di donne, ancorché limitata di numero, non sembra contribuire a modificare la performance di mercato e contabile delle società che ne fanno ricorso. Inoltre, almeno nel biennio in questione, le donne presenti nei consigli paiono essere state cooptate soprattutto per legame familiare piuttosto che per specifiche competenze distintive.
Se discutete delle uguaglianza di genere e quote rosa tutti si diranno pubblicamente favorevoli, forse perché «è bene» avere un'opinione favorevole. Poi, in disparte, gli stessi che si erano detti d'accordo bisbigliano che in realtà la pensano al contrario ma che non è il caso di alimentare discussioni perché tanto ormai «il pensiero unico» è regola contro la quale è inutile opporsi. Che la «bella unanimità» sia solo di facciata lo si può verificare con un semplice esperimento, da me realizzato davanti a un aperitivo. Ho cominciato col chiedere a un gruppo di amici: sareste favorevoli a imporre quote minime nei cda riservate alle minoranze etniche (anche questa è tutela della diversity, credo) delle società quotate? La risposta è corale: naturalmente no! Seconda domanda: però sarete sicuramente favorevoli ad una quota minima di diversamente abili? Analoga la risposta: no! Procedete così e la risposta sarà, più o meno, sempre la stessa: No! Infine, ponete la domanda fatidica: e di quote minime a favore delle donne, vogliamo cominciare a parlarne? A questo punto, scatta il sorriso e la voglia di riprendere a bere il prosecco tanto la domanda pare ormai fuori luogo. Se a un napoletano (come me) chiedete a bruciapelo se sia il caso di riservare una quota minima di canzoni napoletane al prossimo Festival di Sanremo molto probabilmente vi risponderà di sì. Così, istintivamente. Se poi alla stessa persona chiedete il vero perché di quella risposta affermativa, il balbettio potrebbe diventare immediatamente imbarazzante.
*Preside Facoltà di Economia Università LUM «Jean Monnet»
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