IL CAVALLO DI TROIA

La candidatura di Beppe Grillo nel Partito democratico è come una sua battuta: se devi spiegarla c’è qualcosa che non va, e se la spiegazione dura più di tre secondi l’imbarazzo cresce, la faccenda si aggrava, si avvita: anche perché la battuta era chiarissima.
Che c’è da spiegare? C’è un comico sessantenne che ha modernizzato il qualunquismo e ha inaugurato l’antipolitica come mestiere redditizio: sicché da circa tre anni spara a palle incatenate contro il Pd accomunandolo al Popolo della libertà sostanzialmente in tutto (per gradire la profondità dell’analisi) e così riassumendo ciò che alcuni si ostinano a chiamare messaggio: «I partiti sono morti, abbiamo solo due comitati d’affari, il Pdl e il Pd-meno-elle. Il Pd non è mai nato. All’opposizione c’è Topo Gigio Veltroni, che non è nemmeno un politico: è scemo». Prima di Veltroni, l’altro vincente delle primarie, Romano Prodi, era stato definito «Alzheimer»; Franceschini, infine, se «Veltroni era il nulla, Franceschini è oltre». E queste sono solo battute, è vero: c’è mai stato altro?
Ecco perché si fatica anche a spiegarla, la faccenda della candidatura di Grillo: perché se il dibattito interno al Pd riesce a dilaniarsi anche su questo, se cioè riesce a dibattere per più di sette secondi persino attorno a una boutade che andava liquidata in sette-secondi-sette, be’, allora il dibattito non è più la ricerca di una prognosi, ma è la diagnosi, non è la cura, ma è la malattia. Dopo l’annuncio della candidatura grillesca, domenica, Piero Fassino era partito benissimo: «Grillo non si riconosce nel Pd, anzi lo attacca e lo sfregia. Non penso si possa accettare la sua iscrizione». E non c’era altro da dire, la questione era chiusa: spostati, ragazzone, scusaci, abbiamo dei problemi da grandi, se dobbiamo farci seppellire dalle risate abbiamo risorse interne, grazie, no, non ci servono né accendini né dvd. Era finita lì. E invece no: quasi ventiquattr’ore dopo Fassino era ancora lì, a Repubblica tv, a perdere tempo, spiegare, specificare, puntualizzare. Pacatamente. Ma perché? Che cosa si teme, che cosa si esorcizza? Che c’è da spiegare? Com’è possibile che per tutto il pomeriggio di ieri le agenzie sfornassero ancora commenti e dichiarazioni di una sinistra invischiata persino in una sciocchezza del genere?
Fosse per Grillo, e l’ha detto trecento volte, il partito erede di Gramsci andrebbe bruciato, spianato e cosparso di sale; tra primarie per tesserati e primarie aperte non è affatto impossibile che possa intrufolarsi congressualmente come un cavallo di Troia (resisti alla battuta, Beppe) per riversare masse di guastatori che il Pd probabilmente non l’hanno neppure mai votato: va da sé che l’unico ad applaudire sia Di Pietro.
Ovvio, perciò, che il timore sia sempre quello: che un Pd indeciso a tutto, in un momento oggettivamente difficile della sua storia politica, cerchi di attenuare ogni presa di posizione troppo esposta e dirompente. Non ci sarebbe niente di strano se la sinistra restasse divisa tra una parte più realista e governativa e una parte più utopica e di opposizione: ma i termini della spaccatura purtroppo non sono questi. A cannibalizzare ogni evoluzione, a rendere cioè complicato persino il liquidare uno come Beppe Grillo, c’è la controfaccia parlamentare ed extraparlamentare di Grillo stesso: lui, il nientologo urlante Antonio Di Pietro, un tizio secondo il quale di antiberlusconismo a sinistra ce n’è ancora e sempre troppo poco. Solo questo può spiegare come lo stesso Fassino, sempre ieri a Repubblica tv, abbia detto che le differenze tra il Partito democratico e l’Italia dei Valori «sono più di tono che di sostanza». Di tono: come a dire di decibel, al limite di lessico. E la sostanza in comune quale sarebbe? Dire che c’è una dittatura è solo un tono? Dire al mondo che non siamo una democrazia, durante il G8, è un tono? I sinceri democratici Grillo e Di Pietro, ieri, intanto, amoreggiavano e bestemmiavano contro il Pd come se niente fosse. Diceva Grillo: «Con Di Pietro potremmo allearci». Rispondeva Di Pietro: «Il programma di Grillo è molto più articolato di quello degli altri candidati del Pd». Fassino intanto parlava di toni e di sostanza.
Se è vero che un aneddoto val più di mille parole, ce n’è uno che pochi conoscono e che forse si presta. Walter Veltroni, durante le elezioni politiche del 2008, chiese all’alleato Di Pietro di non ricandidare nelle sue liste chi era rimasto fuori da quelle del Pd; il che era logico; Di Pietro invece chiese a Veltroni di non ricandidare nel Pd chi avesse già fatto tre legislature, come chiedevano i grillini e come l’amico Walter aveva in parte già fatto. L’accordo fu siglato.

Veltroni non ricandidò per esempio Giovanni Paladini, Renato Cambursano e Giuseppe Giulietti: dopodiché Di Pietro andò da ciascuno di loro e gli offrì di candidarsi con l’Italia dei Valori. Diverranno suoi parlamentari e lui ridiscenderà nelle piazze a raccogliere firme contro i parlamentari con più di due legislature, insieme con Beppe Grillo. Sono ancora insieme. Il Pd intanto si dilania.

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