Roma - La sentenza della Corte piomba come un macigno in una cittadella politica impegnata a discutere del «patto Renzi-Letta», annunciato ieri mattina da Repubblica. Patto che Enrico Letta ieri si è affrettato a smentire, più che altro per rassicurare Angelino Alfano e anche gli altri candidati segretari del Pd, che subito avevano protestato con Palazzo Chigi per non essere stati presi in considerazione. Ma che era in lavorazione, per assicurare da un lato la durata del governo (fino al 2015) e dall'altro un'agenda d'attacco dettata da Renzi, che possa rafforzare l'appeal di un Pd mal ridotto dalle larghe intese. Dopo la sentenza, però, ai supporter del sindaco è stato subito chiaro che ora le cose rischiano di complicarsi assai. Anche perché «sulla legge elettorale, dopo questa pronuncia, si rischia di riaccendere lo scontro tra Matteo ed Enrico», dice un renziano. In verità, nell'inner circle del segretario in pectore del Pd, la mossa della Consulta viene definita in modo assai più duro: «È una specie di colpo di Stato, che spinge tutta la partita politica nella direzione neo-centrista e dimostra quanto Napolitano, Letta, Alfano e tutti gli altri siano terrorizzati da Renzi e pronti a giocare il tutto per tutto contro di lui», si sfoga un dirigente del Pd vicino al sindaco.
Non nascondono il proprio ottimismo, invece, i lettiani - a testimonianza della distanza tra i due, nonostante i «patti». Intanto perché, come sottolinea più d'uno, «senza legge elettorale non si può andare a votare», quindi la finestra per il voto anticipato in primavera si chiude e Letta resta tranquillo a Palazzo Chigi. E poi perché ora «il potere contrattuale di Renzi contro Letta sarà molto depotenziato», come sottolinea un supporter del premier.
E il «patto»? La proposta di Renzi a Letta si articolava su due punti: una legge elettorale maggioritaria a doppio turno, e l'abolizione del bicameralismo perfetto, con soppressione del Senato. Più, assicura un esponente renziano, una «seria revisione del programma e della squadra di governo». Napolitano viene indicato come l'imputato numero uno, il regista di un'operazione che ha uno scopo ben leggibile: «Sbarrare la strada ad una riforma maggioritaria e obbligare al ritorno alla Prima Repubblica: proporzionale, preferenze e larghe intese a vita». Il blitz compiuto ieri al Senato dal Pd (con l'avallo del governo) insieme agli alfaniani dimostra che l'ansia di arginare gli effetti che l'elezione di Renzi potrebbe avere ha preso la mano ai suoi avversari interni: si sa che il sindaco reclama ad alta voce che la riforma del Porcellum, impantanata da sette mesi a Palazzo Madama, sia spostata a Montecitorio, dove il Pd ha insieme a Sel e Scelta civica i numeri per imporre il maggioritario. Invece ieri, proprio alla vigilia della pronuncia dei giudici costituzionali, la commissione Affari costituzionali presieduta da Anna Finocchiaro ha deciso in tutta fretta di costituire un «comitato ristretto» per la legge elettorale. «Un blitz animato da una voglia di proporzionale che sembra l'humus ideale su cui perpetuare le larghe intese», denuncia la senatrice renziana De Giorgi. E il suo collega Marcucci dice: «Chiederemo al segretario neo eletto del Pd di intervenire».
I renziani promettono battaglia contro il proporzionale: «Faremo le barricate». Ma Peppe Fioroni esprime l'esultanza di tanti, nel Pd: «Se nessuno ora tocca niente, resta il proporzionale con preferenze: sistema perfetto», gongola. Indicando la via che molti sognano di seguire.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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