Le quote rosa stanno diventando il prezzemolino di ogni decisione politica. Ormai siamo alla caricatura finale, per cui si ogni cosa è necessario imporre e seguire la parità di genere. Si è cominciato con l'obbligo di quote rosa nei consigli di amministrazione. Inutile chiedere per quale strano motivo lo Stato debba imporre a delle aziende private la «miscela» giusta del proprio consiglio di amministrazione. Non bastavano gli indipendenti, i rappresentanti delle minoranze, e quant'altro. Oggi un buon cda deve avere anche una considerevole quota di donne. È uno Stato etico, il nostro, che a quanto pare conosce meglio degli imprenditori e degli azionisti, dove sta il bene delle proprie aziende e quale sia la governance giusta da adottare. Ma il nostro governo ha fatto molto di più, in tema di quote rosa. Atto primo, la sfida. Il premier ha applicato la parità di genere alla composizione del governo. Con i risultati sotto gli occhi di tutti. Atto secondo, il ritorno. Il governo ha imposto capolista donna in tutte le circoscrizioni del partito democratico. Atto terzo, la vendetta. Nel rinnovo delle partecipate statali il governo ha imposto la presidenza femminile in tre (su quattro) importantissime società partecipate. In due casi su tre si tratta di volti ampiamente noti di imprenditrici, sollevando così qualche quesito. Perché le nostre imprenditrici non si dedicano anima e corpo alle loro aziende, peraltro in un momento di così grande difficoltà economica? Esistono conflitti di interesse con le società di cui assumeranno la presidenza? Hanno le competenze necessarie per svolgere bene il loro compito in settori così diversi da quelli di provenienza familiare? Perché sono sempre i soliti volti noti, che già sanno di già visto, nonostante l'anagrafe? Possibile che non ci siano altre donne senza un passato ingombrante che siano nate dal nulla e che si siano fatte da sé? Donne manager in gamba che abbiano lavorato nell'oscurità, senza la ribalta associativa o di scranni parlamentari, e che meritino un giusto riconoscimento alle proprie specifiche competenze di settore. Il governo ha pensato di abbassare loro la remunerazione. Con il tetto di 240mila euro, quattro tendono ad essere le categorie di soggetti attirati dalla presidenza di società così impegnative: chi non ha alternative migliori (gli «sfaccendati»); i ricchi di famiglia (i «figli di papà»); gli inclini alla corruzione (i «delinquenti»); chi ha anche altre entrate (i «furbi»). Si tratta di un vincolo che induce a non assumersi responsabilità (elevatissime per chi assume la presidenza di queste società) e che non premia il merito e l'eccellenza. A mio modestissimo avviso, le scelte guidate principalmente dal sesso puzzano di incostituzionalità. Ricordo male oppure l'articolo 3 recita che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge «senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali»? Il nostro governo si è fatto vanto di scelte effettuate tenendo in forte conto del sesso. A mio avviso, si tratta di una posizione scorretta.
Si può sapere cosa dicono a riguardo i costituzionalisti? Per l'intanto, cari uomini, facciamoci crescere una punta di tettine, diamo una bella spolverata alla peluria diffusa e usiamo un rossetto leggero. Altrimenti si annunciano tempi durissimi, perché la rivoluzione in corso ci spazzerà via tutti.*Preside facoltà di Economia Università LUM "Jean Monnet"
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