Covid, come è nata l'inchiesta: cosa è successo in quei giorni di tre anni fa

La procura di Bergamo invia gli avvisi di garanzia: indagati Conte, Speranza, Fontana e i vertici del ministero della Sanità

Covid, come è nata l'inchiesta: cosa è successo in quei giorni di tre anni fa

È un’unica grande inchiesta, ma sembra quasi avere più anime. Non solo, o non tanto, perché le posizioni penalmente rilevanti dell’ex premier Giuseppe Conte e dell’ex ministro Roberto Speranza sono state affidate, come richiede Costituzione, al Tribunale dei ministri di Brescia. Ma perché tocca tanti, forse troppi, aspetti di quei tragici mesi di inizio 2020 quando i decessi mensili nella Bergamasca passarono da una media di 800 a oltre 6mila. Muovendo tanti tentacoli come una piovra, i magistrati bergamaschi hanno cercato di stabilire cause ed effetti, responsabilità ed omissioni, ipotizzando i reati di “epidemia colposa” e "omicidio colposo" causati da una “insufficiente valutazione del rischio” pandemico. “Il lavoro fatto è mastodontico”, assicura il procuratore capo Antonio Chiappani. Se l’impianto accusatorio reggerà in aula è tutto da vedere, i diretti interessati restano innocenti fino a prova contraria, ma i magistrati rivendicano di aver avuto un altro scopo, oltre quelle squisitamente penale: ricostruire i fatti e "dare una risposta alla popolazione” colpita dal Covid. Ecco: cosa è successo davvero in quei giorni di tre anni fa?

Da dove è nata l’inchiesta

Tutto nasce dall’ospedale di Alzano Lombardo, teatro della prima forte propagazione del virus come ricostruito nel “Libro nero del coronavirus”. In principio i magistrati Cristina Rota, Silvia Marchina e Paolo Mandurinosi si sono chiesti se vi fossero anomalie nella gestione del nosocomio, soprattutto in merito alla riapertura del pronto soccorso dopo i primi casi. Non a caso, i primi indagati furono proprio i vertici della sanità lombarda e solo in un secondo momento le attenzioni si sono allargate a macchia d’olio toccando i decisori politici al Pirellone (Fontana e Gallera) e quelli delle istituzioni romane (Conte e Speranza). Il primo atto risale al giugno 2020 con l’iscrizione nel registro degli indagati dell'ex dg del Welfare lombardo Luigi Cajazzo, dell'allora suo vice Marco Salmoiraghi e di altri dirigenti. Poi poco dopo i pm sentirono a Roma l’ex premier Conte e il ministro Speranza, oltre a decine di altri testimoni tra dirigenti del ministero, dell'Iss e del Cts. L’indagine mese dopo mese si è arricchita di tre consulenze scientifiche, tra cui quella del senatore Pd Andrea Crisanti. E soprattutto di un altro faldone scottante, quello sul report scomparso dal sito dell'Oms, che nell'aprile 2021 portò ad una richiesta di informazioni indirizzata all’Organizzazione Mondiale della Sanità. Piccole tessere di un enorme puzzle che oggi, con il definitivo avviso di garanzia, iniziano ad assumere una forma più logica.

Il piano pandemico

Ad essere indagati per epidemia colposa risultano Roberto Speranza, Claudio D’Amario (ex dg prevenzione sanitaria), Angelo Borrelli (ex capo della Protezione Civile), Silvio Brusaferro (Iss), Luigi Cajazzo (dg Sanità lombarda) e Giulio Gallera (ex assessore Welfare). La loro colpa? Non aver applicato i vari piani pandemici influenzali, sia a livello nazionale che regionale. E questo nonostante, sostengono i pm, vi fossero tutti i segnali per farlo. L’Oms il 5 gennaio aveva diramato una raccomandazione ad attuare tutte le “misure di sanità pubblica” sulla sorveglianza epidemiologica, da cui sarebbe dovuto determinare “l’ingresso dell’Italia nella Fase 3” del piano pandemico. Non solo. L’Oms e la Paho il 20 gennaio avevano già confermato “la trasmissione del virus da persona a persona” e invitavano ad applicare le misure di controllo già attuate per la Sars e la Mers. Senza dimenticare che il 31 gennaio l’Oms aveva dichiarato “emergenza internazionale”, che il successivo 4 febbraio aveva incitato ad “affrontare l’emergenza pandemica anche con i vigenti piani influenzali” e che già dal 2014 le malattie da coronavirus venivano “equiparate a quelle dell’influenza”.

In sostanza: i magistrati ritengono che vi fossero tutti i presupposti per applicare quel famoso piano pandemico del 2006 che invece, nei fatti, venne tenuto nel cassetto. Perché? E soprattutto: per quale motivo si decise di impegnare le energie per riscrivere da zero un nuovo piano anti-covid, mai reso pubblico se non dopo battaglie giudiziarie di Fratelli d’Italia, e noto al pubblico come “piano segreto”?

Per la precisione, a Brusaferro viene contestato di aver proposto in sede di riunioni governative “di non dare attuazione al piano pandemico prospettando azioni alternative”, proposta che avrebbe impedito l’adozione tempestiva delle misure necessarie. D’Amario e Borrelli, invece, dovranno difendersi anche dall’accusa di non aver adottato alcune azioni di sorveglianza, assistenza e sanità pubblica. I due malcapitati sono accusati di non aver messo a punto né attuato protocolli di sorveglianza per i viaggiatori cinesi approdati mediante “voli indiretti” (è ormai acclarata l'inutilità dell'idea di bloccare solo i voli dalla Cina); di aver iniziato la sorveglianza epidemiologica solo a partire dal 26 febbraio e non, come previsto dal Piano, sin dall’inizio della Fase 3; di aver acquistato dispositivi medici per la terapia intensiva solo dal 6 marzo, a strage già in corso; di non aver censito tempestivamente i reparti di malattia infettiva sul territorio né i ventilatori polmonari disponibili; di non aver verificato la formazione del personale sanitario né di aver provveduto a organizzare corsi specifici nel pieno dell’allerta; e di non aver verificato “tempestivamente” la dotazione di Dpi per il personale sanitario, benché il Piano prevedesse di dotarsene già nelle pandemiche di relativa calma piatta. Più o meno le stesse accuse rivolte anche a Cajazzo e Gallera, ovviamente a livello regionale.

Si tratta di azioni, o meglio omissioni, già ampiamente contestate in diverse inchieste giornalistiche sul campo. E che secondo i magistati avrebbero “cagionato la diffusione” del Covid “così determinandone la diffusione incontrollata” e cagionando “la morte di più persone”.

La zona rossa

Altro tema riguarda invece la mancata istituzione della zona rossa in Val Seriana. Qui gli indagati, oltre a Giuseppe Conte e Attilio Fontana, sono una lunga sfilza di dirigenti del ministero della Sanità. Parliamo di Brusaferro, D’Amario e tutto il Cts dell’epoca: Maurio Dioniso, Giuseppe Ippolito, Franco Locatelli, Francesco Maraglino, Giuseppe Ruocco, Andrea Urbani e Agostino Miozzo. I fatti sono noti. E bisogna tornare tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo del 2020. Alla notizia del "paziente zero" di Codogno e del primo focolaio a Vo' Euganeo,ik governo reagisce chiudendo i comuni in quarantena: nessuno entra e nessuno esce. La speranza era quella di contenere la diffusione del contagio, che però inizia a propagarsi. I numeri salgono anche al di fuori dei cordoni sanitari imposti dalle autorità, soprattutto in Val Seriana. Cosa fare, allora? Ed è qui i decisori politici tentennano: chiudere anche la Bergamasca oppure no? Ad Alzano e Nembro vengono inviati i militari pronti a chiudere tutto, poi l’ordine di procedere non arriverà mai. Perché? E chi decise il contrario? Ma soprattutto: c’è un nesso eziologico tra la mancata zona rossa e il surplus di decessi in valle? Secondo Andrea Crisanti, e secondo i pm, la risposta è affermativa: si sarebbero potuti evitare 4.148 decessi in tutta la provincia di Bergamo.

Per i magistrati, i menbri del Cts avrebbero dovuto suggerire ai politici di istituire la zona rossa in valle sin dalla riunione del Cts 26 febbraio: invece per giorni, e fino al 2 marzo, si limitarono solo a proporre alcune “misure integrative”. Mai la chiusura drastica, nonostante “il Cts fosse a conoscenza del numero di contagi” e avesse “a disposizione tutti i dati” per stabilire che “bisognasse tempestivamente estendere anche ad altre zone” il lockdown duro. Uno studio di Stefano Merler, in fondo, “già prospettava” lo “scenario più catastrofico per l'impatto sul sistema sanitario e sull’occupazione delle terapie intensive”.

Il discorso si complica per quanto riguarda Attilio Fontana. Secondo i magistrati, infatti, la Regione avrebbe avuto l’autorità per disporre in autonomia la zona rossa una volta constatato che l’r0 era oltre 2, che gli ospedali erano in affanno e che il numero dei casi cresceva a dismisura. I pm contestano al governatore di aver chiesto in due mail, datate 27 e il 28 febbraio, a Giuseppe Conte “il sostanziale mantenimento delle misure di contenimento” già in vigore, dunque senza segnalare "alcuna criticità in Val Seriana" né chiedendo a gran voce "ulteriori e più stringenti misure di contenimento".. Una ricostruzione contestata da Fontana: “Quando si tratta di una emergenza pandemica - ha detto il governatore - la competenza è esclusiva dello Stato secondo la Costituzione, non secondo me”. Senza dimenticare che “la stessa ministra Lamorgese aveva mandato una direttiva dicendo 'guai a voi se volete sovrapporvi con iniziative relative alle chiusure delle cosiddette zone rosse perché questa è una competenza esclusiva dello Stato’”.

Nell’avviso di conclusione indagini, va detto, mancano le accuse specifiche rivolte a Conte e Speranza, per cui occorre procedere tramite il tribunale dei ministri. Ma sula Val Seriana sarà interessante leggere le valutazioni fatte dai pm in merito a quanto successo dal 3 marzo in poi. A Fontana infatti viene contestato il reato solo fino a quel giorno, data in cui - nel corso di una riunione del Cts lombardo - esprime parere favorevole all’istituzione della zona rossa. Cosa successe da lì all’8 marzo, data in cui viene emenato il decreto più generale per l’intera Lombardia e l’Italia? Il governo chiese ulteriori chiarimenti, nonostante sin dal 2 marzo la bozza di decreto fosse pronta con la firma di Speranza. E nonostante, scrivono i pm, quello stesso giorno Conte fosse stato messo al corrente della necessità di “misure di limitazione all’ingresso e all’uscita” da Alzano Lombardo e Nembro. Perché non firmò il decreto? E perché gli oltre 400 militari inviati sul posto il 5 marzo rimasero inerti per tre giorni?

Il report dell’Oms

L’ultimo petalo di questa maxi inchiesta tocca ancora da vicino il piano pandemico. Per la precisione il suo mancato aggiornamento dal 2006, come scoperto dal ricercatore dell’Oms Francesco Zambon e rivelato in un ormai famoso report scomparso misteriosamente dal sito dell’Organizzazione. Come già riportato ad aprile del 2021 dall’Agi, anche l'ex direttore aggiunto dell'Oms, Ranieri Guerra, risulta tra gli indagati ma per “false informazioni rese ai pm” in relazione alle presunte dichiarazioni non veritiere fatte ai magistrati quando venne convocato come persona informata sui fatti il 5 novembre del 2020.

Al centro della sua deposizione, la questione del mancato aggiornamento del piano pandemico del 2006 che, secondo Zambon, Guerra avrebbe fatto retrodatare per farlo sembrare aggiornato al 2017.

Solo un altro tassello, di un puzzle complesso. E ancora tutto da comporre.

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