Il parricidio e il figlicidio. La pragmatica e l’ermeneutica. Il populismo e il sospetto. L’irreprensibilità e la contraddizione. La primavera e l’inverno. Palermo e la Germania. Leoluca Orlando è un fantasma che ritorna in una città governata dagli spiriti e dalle parole. In un’intervista del 13 febbraio scorso al quotidiano LiveSicilia, il Professore dal ciuffo mai domo e dalle scavate borse sotto gli occhi sciorinò una parte del suo pensiero: “Per fare bene la politica, devi convincere gli altri che sei pronto a non farla. Per fare bene il sindaco, idem. Un giorno potrei andare in Georgia a scrivere libri. Si sta benissimo, con una somma per noi quasi irrisoria. E’ un paese magnifico. Campi da re, con trecento euro al mese”.
Al momento la Georgia è lontana, ma lo scettro e la corona di Palermo Orlando li ha sempre portati con sé, pur essendo ben lontani i tempi del suo regno. Anche nell’arte del convincimento dissuasivo, l’avvocato cassazionista non si è smentito. Ha fatto credere di aver chiuso con Palermo, ha ripetuto fino alla svenimento che non si sarebbe candidato a sindaco, si è detto pronto a ribadirlo persino in aramaico e in fenicio.
"NON MI CANDIDO, MI CANDIDO"
“C'è un tempo per ogni cosa. Io il sindaco l'ho già fatto. E' mai possibile che in questa città ci sia solo io?”, cercava di alimentare il suo ego più che dissuadere i suoi interlocutori. Alla fine però si è smentito da solo. Non c’è soltanto lui, infatti, ma ci vuol essere solo lui. Perché “il sinnacollando” (la crasi in dialetto siculo di sindaco e Orlando) è Palermo, nel bene e nel male. Perché è un uomo, prima che un politico, pieno di sé.
“Non posso camminare per Palermo perché tutti mi chiedono di candidarmi a sindaco”, si pavoneggiava ad agosto sul Sole 24 ore, quando ancora era prematuro trarre conclusioni di ogni tipo. Poi, le finte, le frasi sibilline, l’appoggio nei confronti di Rita Borsellino (che ha seguito come un’ombra durante la campagna per le primarie, quasi a suggellare la sua presenza nell’assenza, con tanto di neologismo: “Io e Rita siamo la stessa cosa, due storie per un sindaco: il sindaco Borsorlando” ).
IL TRADIMENTO DI FERRANDELLI
Fino all’infausto risultato delle primarie. Con la vittoria di Fabrizio Ferrandelli, ex capogruppo dell’Idv al Comune, figlioccio politico di Orlando, ucciso e seppellito sotto l’accusa di brogli. La stessa accusa che l’ex sindaco di Palermo, sconfitto alle elezioni del 2007, mosse nei confronti di Diego Cammarata, tacciandolo di “abusivismo” e denunciando brogli “che pesano come un macigno”. La stessa accusa, con l’aggravante dei voti mafiosi, che nel 1987 investì Claudio Martelli, candidato per la Camera a Palermo. Passano gli anni, cambiano i protagonisti, ma le dichiarazioni e le accuse restano le stesse.
Il figlioccio Ferrandelli, per il padre politico, è un candidato “abusivo e dopato”, il cui “percorso è stato virtuoso fino a un certo momento, poi, forse per la giovane età o per smania di protagonismo è finito nelle mani di Cracolici e Lumia, cioè i compari di Lombardo”. Talis pater, talis filii, recita l’adagio latino. E in effetti, giovane età e smania di protagonismo sono anche alcune delle caratteristiche di Orlando.
GLI INIZI DELLA CARRIERA POLITICA
Eletto consigliere comunale nella lista della Democrazia Cristiana nel 1980, a soli 33 anni (gli stessi che ha Ferrandelli), cinque anni dopo viene designato alla carica di sindaco dalla Dc. Ma Orlando, si sa, oltre alla filosofia, è uomo che vive di sfide. E prima di accettare, tanto per appagare la sua arsura di leadership, pretende un voto segreto dai suoi compagni di partito. Il risultato è un boccone indigesto: Orlando viene clamorosamente bocciato e rinuncia alla carica. Ma il giovane di formazione gesuita non si scompone. Sa attendere. Sa scandire il tempo così come lo farà nel 1999 nel film “Palermo sussurra” del regista Tedesco Wolf Gaudlitz nel quale reciterà i panni di un orologiaio che vuol fermare il tempo ma, nello stesso attimo, lo vorrebbe accelerare per arrivare a tempi più eccitanti.
Non ha bisogno di aspettare molto, il nouveau joueur. Passa qualche mese e il 16 luglio 1985 diventa primo cittadino di Palermo con i voti di Dc, Psi, Psd, Pli e Pri. Il suo nome viene vergato su 52 delle 54 schede del pentapartito. Un numero impressionante di consensi (per essere eletto erano sufficienti 42 voti). Per lo studente poliglotta, vissuto in Inghilterra, ma soprattutto ad Heidelberg, tra le mura della più antica università della Germania, fondata nel 1386 da Roberto I, inizia quella che verrà ribattezzata la “Primavera di Palermo”.
IL DUELLO CON ELDA PUCCI
Una stagione di rinnovamento profondo, morale e istituzionale. A uscire sconfitta nella corsa a sindaco fu l’ex primo cittadino e pediatra Elda Pucci, che sparò ad alzo zero contro i vertici della Dc palermitana, rei di averla brutalmente emarginata dal partito. In realtà, la decapitazione politica di Elda Pucci venne decisa a Roma ed ebbe come mandante il commissario provinciale dello scudo crociato, Sergio Mattarella (fratello di Piersanti, presidente della Regione Sicilia ucciso dalla mafia e per il quale Orlando fu consigliere giuridico dal 1978 al 1980) che, con il via libera del segretario Ciriaco De Mita, indicò il Professore come candidato ufficiale a sindaco.
De Mita puntò tutto su Orlando, per attuare il suo rinnovamento democristiano. E all’inizio, non fu deluso. Il suo figlioccio prima guidò una giunta di pentapartito, poi accusò il Psi di prendere i voti mafiosi, lo scaricò sostituendolo con i Verdi e infine (lui che si è sempre professato anticomunista) imbarcò il Pci e varò un governo a sei.
LA CULTURA DEL SOSPETTO
Poi iniziarono a formarsi le prime ruggini con gli esponenti del partito e Orlando cominciò ad applicare costantemente il motto del suo mentore e insegnante al liceo dei gesuiti “Gonzaga”, Ennio Pintacuda: “La cultura del sospetto è l’anticamera della verità”. Un sospetto che lo accompagnerà sempre nella sua vita politica. Una testimonianza dei metodi orlandiani l’ha fornita Vito Riggio, suo ex compagno di studi e grande amico, nonché capogruppo dc al comune di Palermo all’epoca della prima elezione a sindaco del Professore.
“Orlando comincia a costruire la sua immagine di calunniatore a tempo pieno che purtroppo piace alla gente perché viene incontro agli istini più plebei – ha spiegato Riggio in un’intervista al Corriere della sera, datata 28 febbraio 1993 - Lui non offre giudizi sull’avversario, ma gli rovescia addosso insulti e improperi”. E fu proprio con l’arma dell’impropero che Orlando consumò il primo parricidio della sua storia politica, ai danni di De Mita, a cui, secondo Riggio, “doveva tutto”. Quando De Mita, dopo aver ceduto il posto ad Arnaldo Forlani, si alleò con la maggioranza democristiana guidata da Andreotti, il nemico numero uno di Orlando e referente politico di Salvo Lima, le dinamiche cambiarono. Lo scontro si acuì per le elezioni europee del 1990.
IL PARRICIDIO DI DE MITA
La Dc candidò Lima, ma la mania di grandezza portò Orlando a intimare al partito un aut aut: o Lima o me. La Dc non cedette e scaricò Orlando. A suggellare la rottura tra De Mita e Orlando fu il convegno della sinistra a Lavarone, dove De Mita ricordò al suo ex pupillo che “la politica non si fa con le denunce morali”. Era la fine dell’esperienza decennale di Orlando nella Dc (apostrofata come “il peggior nemico della tradizione cattolico-popolare”) e l’inizio di quella de “La Rete”, fondata nel 1991 e che annoverava ex dc, ex comunisti e gente come Nando Dalla Chiesa, Diego Novelli e Alfredo Galasso.
Ma gli strascichi del parricidio di De Mita si prolungarono fino al 1993 quando, in merito all’inchiesta sulla gestione dei fondi destinati ai comuni danneggiati dal terremoto dell’Irpinia del 1980, in un’intervista all’Europeo, Orlando tuonò contro De Mita dichiarando che “nella gestione dei fondi c’è dentro fino al collo, grazie anche al fratello (Michele, ndr) costruttore”.
Incredulo, dinnanzi alle accuse del “figlio”, De Mita definì Orlando “un mascalzone e un mafioso". Creata la Rete, il profilo “anti” di Orlando si accentuò sempre di più. Il generoso megalomane che porta sempre con sé il crocifisso regalatogli dal ragazzo russo che ha adottato e chiamato Nikita-Leoluca, perché è “l’unico al mondo con un nome così”, divenne un’icona nazionale dell’antimafia.
LE CONDANNE, GADAMER E IL PREGIUDIZIO
Era tanto immerso nel ruolo che arriverà anche a prendersela con I Soprano, la saga americana sulle famiglie mafiose del New Jersey, definendolo “uno stereotipo che offende gli italiani”. Il seguace del filoso dell’ermeneutica Gadamer, sostenitore dell’idea che il pregiudizio non va eliminato, ma abitato con una certa phrónesis, "prudenza", afferra il pregiudizio e dimentica la prudenza.
Quando partecipa ai convegni, quando dibatte in televisione, Orlando è un tedesco impassibile, ma soprattutto un siciliano furioso. La sua irruenza o incontinenza verbale gli costa una condanna della Cassazione nel 2005 a una pena pecuniara per diffamazione aggravata nei confronti di 21 consiglieri di Sciacca, accusati nel 1999 durante un comizio di collusione con la mafia e di aver sfiduciato il sindaco di Sciacca di allora, Ignazio Messina, politicamente vicino a Orlando, al fine di favorire gli interessi economici di Cosa Nostra.
Un’altra condanna, ma solo in primo grado, la incassò nel 1998: quattro mesi di reclusione con i benefici di legge e 70 milioni di lire di risarcimento per diffamazione nei confronti della sua acerrima nemica Elda Pucci, ritenutasi diffamata da un servizio pubblicato il 5 marzo del 1993 sull’Europeo nel quale Orlando affermava che “è una persona perbene, ma fa parte di un mondo vecchio che non capisce che andare a casa di Salvo Lima o di Vito Ciancimino, come lei faceva prima di essere eletta sindaco, sgretola il tuo patrimonio di credibilità perosnale”. Peccato però che, come raccontato nel libro Da Cosa nasce Cosa, di Alfio Caruso, Orlando, una volta eletto sindaco per la prima volta, corse a ringraziare proprio Salvo Lima nella sua villa di Mondello.
L'ACCUSA NEI CONFRONTI DI FALCONE
Irreprensibilità e incoerenza, appunto. Altre volte, la dialettica del sospetto di Orlando scatenò infuocate polemiche nel dibattito politico. Celeberrimo l’atto d’accusa che il Sinnacollanno lanciò il 17 maggio 1990 dagli studi tv di Samarcanda: “Io sono convinto che dentro i cassetti del Palazzo di giustizia ce n’è abbastanza per fare chiarezza sui delitti Mattarella, La Torre, Insalaco e Bonsignore”. Un’invettiva che scatenò il putiferio all’interno della magistratura e che prese di mira l’ex amico Giovanni Falcone, reo di “tenere chiusi i cassetti”.
La reazione del giudice ucciso nella strage di Capaci fu perentoria. Falcone invitò il sindaco di Palermo a fare nomi e cognomi, a citare fatti o altrimenti a tacere e, davanti al Csm, rispose a Orlando affermando che “la cultura del sospetto è l'anticamera del Khomeinismo” e che “fa politica attraverso il sistema giudiziario. Sarà costretto a spararle sempre più grosse. Per ottenere ciò che vogliono, lui e i suoi amici sono disposti a passare sui cadaveri dei loro genitori. Questo è cinismo politico. Mi fa paura”.
Paura, ma soprattutto delusione, che provò anche l’ideatore della cultura del sospetto. Quell'Ennio Pintacuda, che anni dopo confesserà il suo fallimento: “Pensavo di aver formato degli statisti, invece mi sono ritrovato con dei nani”. Il Csm comunque aprì un’indagine, ma un anno dopo, archiviò il caso. “Quando la magistratura non arriva, rischia di arrivare prima la mafia”, fu il commento di Orlando.
I PROFESSIONISTI DELL'ANTIMAFIA
Che anni prima, nel 1987, si scagliò contro il famoso articolo di Leonardo Sciascia, I professionisti dell’antimafia, in cui lo scrittore di Racalmuto avanzava il dubbio che “l’antimafia senza il rispetto delle garanzie dello Stato di diritto” potesse trasformarsi in uno strumento di potere anche in un sistema democratico. Sciascia, pur mai nominandolo, se la prendeva con Orlando, che “per sentimento per calcolo” si esibiva per tutto il suo tempo come antimafioso e perciò si sentiva in una botte di ferro.
“Chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un’azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che alla fine qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso”, scriveva lo scrittore. Il sospetto di Sciascia non andò giù a Orlando, che collocò Sciascia ai margini della società civile, salvo poi (vent’anni dopo), correggere il suo pensiero distinguendo tra le parole dello scrittore e l’uso degli “sciasciani di borgata” che le strumentalizzarono.
IL SUICIDIO DEL MARESCIALLO ANTONIO LOMBARDO
La cultura del sospetto di Orlando colpì anche il maresciallo Antonio Lombardo, accusato nel 1995 nella trasmissione di Santoro, di essere al servizio dei mafiosi. Il carabiniere si tolse la vita pochi giorni dopo, lasciando scritto: “Mi sono ucciso per non dare la soddisfazione a chi di competenza di farmi ammazzare e farmi passare per venduto”.
Anche su Falcone, a distanza di decenni, Orlando spiegò meglio il suo pensiero, rivendicando la sua idea. E cioè che “Falcone era un magistrato e doveva trovare le prove. Io faccio e facevo il politico. Il mio compito sta nel coraggio di indicare le responsabilità con chiarezza”.
IL SUCCESSO ELETTORALE DEL "SINNACOLLANNO"
Nonostante le invettive, la fama e la lotta alla mafia di Orlando restano impresse nella mente dei palermitani, che nel 1993, nelle prime elezioni dirette dei sindaci in Italia, lo eleggono per la seconda volta con il 75% dei voti. Un consenso bulgaro, ripagato da una serie di riforme per allontanare gli interessi economici delle cosche dal Comune di Palermo, dal rinnovamento civico, dalla nuova cultura della legalità all’interno di un processo divenuto poi noto come “Rinascimento di Palermo”. La manìa di protagonismo dell’amante della Germania, dove si recava spesso con nomi falsi, per ragioni di sicurezza e per giustificare l’apparato di polizia che lo proteggeva, viaggiando, come lui ha dichiarato, persino col cognome Brusca, riapparve in tutta la sua sfrontatezza dopo la sconfitta dell’allenza dei progressisti alle elezioni politiche del 2004.
Alla festa nazionale dell’Unità, Orlando confessò: “Avevamo perso la testa. Tutti noi progressisti soffrivamo di una malattia che si chiama delirio di onnipotenza. Per fortuna non abbiamo vinto perché con la nostra presunzione avremmo rovinato il Paese”. Orlando l’autocritico che non ha paura della sconfitta e del dissenso della base. E’ lo stesso Orlando che nel 1988 non ebbe timore di entrare nella gabbia delle tigri del circo del Medrano e di sentire il ruggito del felino a pochi metri di distanza. Ha domato la tigre, così come ha domato Palermo. O almeno ci ha tentato, con i suoi mezzi e i suoi modi di intendere la politica.
ORLANDO, IL "BERLUSCONI DI SICILIA"
Il popolo panormitano alle elezioni amministrative del 1997 ha creduto per la terza volta in lui, anche se non con la stessa quota di consenso. Adesso, l’amico di Hillary Clinton e di Schultz, l’amante dei viaggi studio negli States, dove conobbe la febbre del Superbowl che lo contagiò a tal punto da organizzare a Palermo i campionati mondiali nel 1999, dopo la sconfitta alla corsa alla presidenza della Regione (quando si definì il “Berlusconi di Sicilia” e venne battuto nel 2001 da Salvatore Cuffaro), dopo l’adesione al partito dei “Democratici” di Prodi e all’Idv di Di Pietro, intervallate da esperienze da parlamentare europeo, libri sulla mafia, consulenze all’estero sulla criminalità, premi culturali e onorificenze internazionali, lancia un’altra sfida. La quarta.
“Il leader può perdere dieci elezioni di seguito ma pensare sempre a come vincere le successive se ha un progetto, un’idea. Il capo se perde va a casa, perché è ancorato al presente.
Io non sono mai stato un capo”. Leoluca Orlando infatti si è sempre sentito un leader, e più che al presente è ancorato al suo passato. Adesso, vuol far tornare indietro le lancette dell’orologio. Adesso vuol tornare ad essere il “Sinnacollanno”.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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