Gioiosa non lo è mai stata, la macchina da guerra del Pd. Ma il passaggio del ciclone Renzi sul quartier generale di Pier Luigi Bersani ha già rovinato quel po' di buonumore che si faceva strada assieme al miraggio delle poltrone 2013. La parola d'ordine del momento è dunque minimizzare, smussare, far capire che il sindaco fiorentino non è «un nemico del popolo», ma solo un giovane e volenteroso sfidante. Dimostrare, insomma, in tutte le salse e in tutte le lingue che i «nonni» non hanno paura, che il gruppo dirigente è saldo. «Non cannoneggiate Renzi», dice Follini, che pure non revoca l'appoggio al segretario.
La battaglia si trasferirà, allora, alle regole di queste benedette-maledette primarie e, se possibile, nel cambiare i temi dell'agenda. Bersani finora ci ha provato, ma con poco successo. Al Nazareno sperano nel comizio di chiusura della festa nazionale, domenica prossima, ottima occasione per battere un colpo e spostare il discorso sui guai dell'Italia, piuttosto che su quelli del Pd. Acqua fresca, in verità: perché di quelli la gente sa più o meno tutto e non ne può più, mentre delle intricate trame interne del partito ancora non sono chiari né contorni né tattiche.
I «giovani turchi», per esempio, s'incontreranno oggi per dare una mano di vernice fresca alla sbiadita segreteria. Un'altro viso pallido e fresco è quello della Serracchiani, che attacca Renzi e propone addirittura di sopprimere le primarie. C'è poi chi preme per farle con il doppio turno, cosa che favorirebbe il segretario. L'ipotesi viene considerata remota: Bersani non vuole sconfessarsi, reclama primarie «aperte» e trasparenti, senza trucchi e sotterfugi. Un bagno di popolo che ne rafforzi la leadership e lo proietti su Palazzo Chigi. «Dobbiamo metterci in gioco, avere coraggio, uscire dalle nostre stanze», ripete ai suoi. «Tutti vogliono tagliarci la strada, il percorso è molto duro e arduo, ma non mi impressiono», ripete in pubblico.
Eppure il difetto sta nel manico, che Bersani se ne sia reso conto o no. L'ansia di tornare al potere ha costretto il partito a imboccare una strada che mette a rischio l'esistenza stessa del Pd. E non è un caso che tanti della prima ora, come Goffredo Bettini, parlino apertamente di dissoluzione. Il motivo è presto detto: il partito nacque dall'idea di unione delle due famiglie politiche maggioritarie della prima Repubblica, ex comunisti ed ex Dc di sinistra. Un matrimonio che si è rivelato sterile, senza partorire il frutto tanto agognato: l'autosufficienza. Nel momento in cui il Pd, per governare, sceglie di allearsi con il comunista Vendola e con l'ex Dc Casini, sconfessa l'idea originaria e ammette il fallimento del progetto. Per di più legittimando due poderose calamite, Sinistra e libertà per i socialdemocratici e un rassemblement centrista per cattolici e moderati.
La scommessa di Renzi si basa esattamente su questo presupposto. Tanto più che il sindaco di Firenze è ben più telegenico di Casini, più sgamato di qualsiasi «papa straniero» alla Passera, e potrà certamente esercitare un forte richiamo per i moderati, anche al di fuori del recinto piddino. Ma chi se la sentirà di restare in un Pd «renzizzato»? Persino D'Alema avrebbe confidato agli intimi che non resterebbe un minuto nel Pd di Renzi. Secondo alcuni coltivando anche il sogno di dar vita a una versione riveduta e corretta del suo Pds.
Certo che Renzi ha facile gioco, di fronte agli zombie della nomenklatura, imbalsamati negli schemi dei partiti classici. Per tappare la bocca a chi gli rimprovera l'eventuale abbandono della poltrona di sindaco di Firenze, oltreché l'impreparazione a fare il premier, starebbe preparando un colpo a sorpresa in caso di vittoria alle primarie (che gli ultimi sondaggi danno più che possibile). La rinuncia a sedere a Palazzo Chigi, chiedendo a Monti di restarvi per concludere il suo lavoro «tecnico»: un paio d'anni, non di più. Ipotesi cara a Casini e ieri delineata con cautela persino da Prodi.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.