Roma - Partito né carne-né pesce, il Pd continua a rincorrere l'identità grillina. Ma c'è un terreno di coltura comune sul quale, senza troppi clamori, qualche prova d'acchiappo s'è già affacciata. Sui fatti, come chiedono i grillini. «Riuscendo là dove noi e magistrati non siamo riusciti in vent'anni», come ammette un senatore del Pd.
Fare fuori (politicamente) Berlusconi, il sogno proibito della sinistra. Obbiettivo dichiarato dei cinquestelle che, nella logica catartica del Movimento, sembra quasi obbligato. Tentazione ribadita ieri dal capogruppo Vito Crimi, pronto a votare per l'ineleggibilità del Cav e di «chiunque sia stato condannato in primo grado». «Tesi inconsistente e aberrante», ha subito reagito Daniele Capezzone, nuovo portavoce berlusconiano. Ma laddove ignorantia legis non excusat Crimi (una legge al riguardo sarebbe incostituzionale) interviene un percorso concreto, già studiato e ventilato per dar corpo all'alleanza Pd-M5S, che si basa sulla nota vicenda della legge del '57. I grillini vorrebbero porre la questione già alla Giunta provvisoria per la verifica dei poteri, che sarà insediata al Senato poco prima del voto per il presidente, e la cui composizione per regolamento sarà sorteggiata per cinque settimi (gli unici due sopravvissuti della vecchia composizione sono Malan e Casson). Ma anche se ne uscisse una maggioranza favorevole alla dichiarazione di ineleggibilità per Berlusconi, gli alti funzionari di Palazzo Madama sono certi che la questione non possa far parte dei compiti della Giunta provvisoria, che si limitano alla verifica formale delle rinunce e delle opzioni con la proclamazione degli eletti. Ma è altrettanto sicuro che M5S la ripresenterà alla Giunta permanente, composta da una ventina di senatori in rappresentanza proporzionale dei gruppi. E la «testa» di Silvio potrebbe valere la messa, per i grillini: sarebbe il primo, eclatante atto della loro «rivoluzione». Su questo si stanno interrogando da qualche giorno anche i vertici del Pd, combattuti tra il richiamo della foresta e quello della responsabilità. Diventato più forte dopo il richiamo di Napolitano a non inasprire una situazione già aggrovigliata e tesa.
La questione dell'ineleggibilità è contemplata dalla legge 361 del 1957, all'articolo 10 comma uno, laddove non sono eleggibili «coloro che in proprio o in qualità di rappresentanti legali di società o di imprese private risultino vincolati con lo Stato per contratti di opere o di somministrazioni, oppure per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica». Essendo le televisioni di Berlusconi concessionarie dello Stato, una prima volta nel 1994 (maggioranza di centrodestra) e una seconda nel 1996 (maggioranza di centrosinistra, governo Prodi) la questione giunse all'esame della Giunta per le elezioni sulla scorta di una campagna stampa dell'Espresso e di un comitato composto, tra gli altri, da Paolo Flores d'Arcais. Entrambe le volte, il ricorso alla Giunta fu bocciato (unico voto in dissenso di Luigi Saraceni), in quanto l'inciso «in proprio» doveva intendersi «in nome proprio» e dunque non applicabile a Berlusconi.
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