Una visita inattesa. Quasi una profanazione. La Guardia di finanza si è presentata martedì nella sede del Pd a Roma per acquisire, come si dice in gergo, alcuni documenti relativi all'indagine riguardante Zoia Veronesi (nel tondo). La storica segretaria di Bersani è indagata per truffa. Si tratta di un'inchiesta che viaggia in sordina e che nessuno ha maneggiato in queste settimane di fuoco, con la primarie all'orizzonte, contro il segretario del Pd, ma certo lo scavo dei pm di Bologna colpisce, sia pur indirettamente, il partito nei suoi punti nevralgici: la capitale e Bologna, dove la truffa sarebbe stata confezionata all'ombra delle torri di Kenzo, epicentro del potere rosso.
L'accusa, naturalmente, è tutta da dimostrare ma intanto pm e Fiamme gialle vanno avanti con il loro lavoro: in sostanza la Regione avrebbe ritagliato un incarico ad hoc, cucito su misura per la Veronesi, proprio per permetterle di seguire Bersani a Roma. I fatti sarebbero avvenuti fra il 2008 e il 2010, quando la Veronesi fu catapultata dalla Regione, che continuava a stipendiarla, nella capitale con un incarico nuovo di zecca e lungo come il titolo di un film wertmulleriano: quello di raccordo fra la Regione Emilia Romagna e lo Stato centrale e le istituzioni. Concetto fumoso per gli investigatori che sono arrivati ad una conclusione drastica: Bologna pagava, lei lavorava sempre per il suo storico capo, ingannando l'istituzione. Una bugia a spese del contribuente e valutata dal Fatto quotidiano, che ieri ha anticipato la notizia, più di 140mila euro. I militari non avrebbero trovato nulla a riscontro dell'impegno profuso dalla signora per onorare il suo incarico ufficiale, insomma per far dialogare Bologna e Roma. Mistero. Lei nega su tutta la linea: avrebbe effettivamente svolto il suo compito e avrebbe dato una mano all'attuale segretario del Pd a tempo perso, o meglio nel tempo libero.
Ora ecco il doppio blitz nel tentativo di chiarire una volta per tutte la vicenda: i militari sono andati negli uffici amministrativi del Pd, dove hanno recuperato alcuni documenti e hanno ascoltato come persone informate sui fatti alcuni dipendenti; poi hanno esteso le loro ricerche alla sede romana della Regione Emilia Romagna.
Dunque, l'indagine che pareva viaggiare al rallentatore è arrivata alla stretta decisiva con un'accelerazione nelle ultime settimane. Tutto era cominciato un paio d'anni fa con un esposto firmato da Enzo Raisi, allora deputato del Pdl e oggi di Fli. All'epoca lei gli aveva risposto per le rime: «Sono una dipendente regionale con orario di lavoro di 36 ore. Nel tempo libero e nel weekend faccio quello che mi pare gratuitamente». Pareva che la storia fosse finita su un binario morto, come altre indagini che nel passato hanno lambito la nomenklatura rossa e la sua architettura di potere senza approdare a nulla. E invece nelle ultime settimane lo scenario cambia: Zoia Veronesi viene indagata per truffa aggravata; poi si scopre che è sotto inchiesta pure Bruno Solaroli, ex capo di gabinetto della Regione Emilia Romagna, uomo vicino al governatore Vasco Errani e a Bersani che dell'Emilia Romagna è stato il numero uno dal '93 al '96. Solaroli, a cui viene contestato l'abuso d'ufficio, avrebbe confezionato il nuovo ruolo romano della Veronesi. Adesso la caccia prosegue nella capitale e, a quanto pare, i pm si sarebbero mossi seguendo le sollecitazioni della difesa. «Non è stato emesso alcun decreto di perquisizione - si legge in una nota del portavoce della Procura Walter Giovannini - In sostanza, a seguito delle indicazioni fornite in chiave difensiva dalla stessa signora Zoia Veronsi, è stata svolta la doverosa e ordinaria attività di riscontro». Tace Bersani.
Del resto aveva già parlato, con tono gelido, un paio di settimane fa: «Visto che c'è un esposto, ancorché di Raisi, è giusto che la magistratura accerti. Sono comunque sicuro che le cose siano state fatte bene». La magistratura però la pensa in un altro modo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.