Una disfida Bersani contro Berlusconi, con un Monti eventualmente rinunciatario, non è solo lo spauracchio di quelle povere anime del centro politico, appese al presidente del Consiglio tecnico per esistere, è anche la segnalazione di un fallimento più generale.
In democrazia si lavora con quello che offre la realtà, e alla fine le costruzioni di ingegneria istituzionale, anche se generate da buone intenzioni, mostrano la corda: a un certo punto, che siano le parodistiche primarie o le cantatine televisive da Giletti e da Vespa, il popolo deve decidere e la conquista del consenso è ineludibile. Però bisognerà ammettere, se dovesse finire con la ritirata preventiva della coalizione sanamente anticoncertativa e «padronale» benedetta da Marchionne, che un anno di governo del presidente, con i tecnocrati alla guida controversa di un governo che ha sostituito quello eletto guidato dal Cav, ha prodotto il nulla politico; e si torna esattamente al punto di partenza. Il presidente della Repubblica, se è vero che ha lavorato per la rinuncia di Monti a smantellare con la sua campagna diretta il vecchio bipolarismo, ha commesso un errore dal suo stesso punto di vista: voleva che nascesse una spirale virtuosa da una scelta per lo meno equivoca come quella di sospendere il voto e le garanzie di legittimazione democratica di chi governa, ricorrendo a una compagine tecnocratica e stimolando nuove scelte dei partiti, e invece gli rimane in mano, sul piano dell'evoluzione del sistema politico, la ripartenza dal novembre 2011, e niente più. Elezioni sotto la neve, con una coalizione di governo indebolita e un fronte delle opposizioni imbaldanzito ma largamente immaturo. Tutto come un anno fa.
Certo, diminuisce rispetto allo standard virtuoso dei bund tedeschi la differenza di rendimento dei titoli di Stato, e dunque il loro costo per il debito pubblico italiano sempre crescente e per l'economia di società e famiglie; certo, si è dimostrato che è possibile realizzare riforme che hanno un'influenza strategica sulla curva della spesa pubblica, a partire dalle pensioni, ed è stato violato, con contraddizioni e incertezze, il tabù della concertazione preventiva, con diritto di veto dei sindacati di classe, in materia di misure socialmente importanti, in particolare sul lavoro: ma la questione di come far crescere la ricchezza del Paese, e risolvere per questa che è l'unica via il problema del suo indebitamento, è sempre lì a fare da ostacolo e da richiamo brutale a una condizione di potenziale sottosviluppo della settima od ottava potenza industriale del mondo, terza in Europa, che poi sarebbe il nostro Paese. Questa che è la vera guerra per noi e in parte anche contro di noi, contro le nostre antiche abitudini pigre, l'hanno persa tutti, uno dopo l'altro, e Berlusconi e Prodi e Monti.
La sostanza è nota: dovesse vincere Berlusconi, il che è considerato un pronostico azzardato visto il bailamme che ha preceduto la sesta discesa in campo e i suoi contenuti che a me sembrano di forte richiamo ma minoritari, ricomincerebbe la tiritera della delegittimazione personale e simbolica, con tutto il suo seguito di mascalzonate per via giudiziaria, e il premier non avrebbe il potere, né quello istituzionale né quello politico di capo della coalizione, per interrompere la spirale suicida della democrazia italiana; dovesse invece vincere Bersani, com'è probabile allo stato, chi mai al mondo ci garantisce che non ricascheremmo nel gioco delle vanità ideologiche dell'era Prodi, nella rincorsa delle invidie di classe, dei ricchi che devono piangere, dei ministri che litigano e vanno in piazza, del vendolismo che consuma e si mangia a poco a poco, con l'aiuto di quei matti della Camusso, di Ladini e di Ingroia, la promessa instabile e sedicente pragmatica dell'amministratore di Piacenza venuto da una pompa di benzina e autore delle lenzuolate liberalizzatrici?
Comunque, Berlusconi se la gioca alla sua maniera. Secondo me è stato un colossale errore, questo avere abbattuto il muro di terzietà politica costituito da Monti (ne abbiamo ragionato tante volte).
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