I 50 anni di Cicciobello papà dei bamboccioni

Da giocattolo a simbolo di una realtà sociale. Basta osservare i suoi "cloni" in carne e ossa...

Il bambolotto Cicciobello Marcellino dolce amore
Il bambolotto Cicciobello Marcellino dolce amore

Invecchiato senza essere cresciuto.
Cicciobello compie cinquant'anni e non c'è (ex) bimba che ci abbia giocato a non ricordarlo così, come in fondo è rimasto: gote rosee, bocca spalancata quel tanto che basta ad accogliere il ciuccio e ciuffi biondi a far da capelli. E di straordinario nel compleanno di un bambolotto, di questo bambolotto, non c'è solo la capacità imprenditoriale, l'ingegno di Gervasio Chiari che nel 1962 lo ha inventato, né l'abilità di strateghi del marketing.
Un successo lungo mezzo secolo è molto ma l'impresa vera è un'altra: Cicciobello, forse suo malgrado, è diventato gergo, sintesi del genere d'uomo che uomo vero non è. Il maschio che non s'arrende all'età, alle responsabilità. Che sia ammogliato o eterno single (ossia il corrispettivo della zitella zeppa di noiose e complicate fisse, che se la cava meglio solo formalmente), il «Cicciobello» è la via di mezzo tra il mammone e l'individuo tendenzialmente inutile alla quotidianità pratica di una famiglia. Quello che oggi viene inquadrato come «bamboccione», in sintesi, seppur con le dovute distinzioni, fino a una manciata di anni fa prendeva il nome della pupazzo prodotto dalla Gig Giochi Preziosi.
Il visetto paffuto soffia su cinquanta candeline pavoneggiandosi d'essere invecchiato senza essere cresciuto e intere generazioni di donne si trovano a far di conto: perché, ahiloro, dopo aver tenuto fra le braccia per anni Cicciobello, sono cadute tra le braccia di un «Cicciobello». Dell'adulto al testosterone invecchiato senza essere cresciuto.
Sarà la magia del tempo che passa, sarà che storia e politica entrano nelle case degli italiani più di quanto non sembri, ma accade di fatto che generazioni di genitori segnino generazioni d'adulti, quasi allo stesso modo e con buona pace dell'unicità individuale. È così che, miscelando un pizzico di luoghi comuni all'analisi, ti pare di vederla la schiera di «Cicciobelli», capaci sì e no di cambiar la gomma dell'auto bucata, capaci sì e non di far spalle grandi a tu per tu con l'educazione dei piccoli di casa. E ti pare di vederle, quelle bambine ormai quarantenni. Loro e le loro manine a maneggiare il bambolotto in attesa che sia il momento che quei vagiti si facciano veri, profumino di latte vero. Loro e il loro sogno del principe azzurro, quello che negli anni si trasforma nel desiderio del compagno, di colui che ti prende per mano perché la vita sia dolcemente semplice. Le stesse che negli anni gli standard son state costrette ad abbassarli, lasciandosi alle spalle il cavallo bianco e tutto l'annesso scolorito celeste, come l'immagine del macho vero ma colto, e si son prese in casa quella che forse era la figura più consueta. La stessa che stringevano da piccine. Con la controindicazione che il capriccio del pupo in carne e ossa alto uno e ottanta urta piuttosto che intenerire. Che badare al lui influenzato sa più di strazio che di gioco. Che di pupi (veri) magari ne son arrivati anche un paio e tu hai quarant'anni e cresci loro e pure il loro padre.


E una non può non chiedersi se non sia tutta colpa di quell'infanzia lì, di quell'educazione lì, di quel Cicciobello lì. Ciò nonostante, siamo certi, nessuna di quelle bambine vissute negherà un brindisi e un augurio al pupazzo del cuore. Magari.

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