I due Paesi di Alcide e Palmiro

Sono morti tutti e due ad agosto. Il leader Dc ha scommesso su "pane, lavoro e libertà". Il "Migliore" ha fortificato le casematte del Pci

I due Paesi di Alcide e Palmiro

De Gasperi e Togliatti sono morti ad agosto, a dieci anni di distanza: Alcide il 19 del 1954; Palmiro il 24 del 1964. Tra qualche giorno ricorrerà l'anniversario di entrambi. De Gasperi finisce i suoi giorni a Borgo Valsugana, dove si era ritirato sconfitto. Togliatti muore a Yalta, in vacanza e ancora indiscusso leader del Pci. A una visione retrospettiva, i luoghi dei decessi appaiono emblematici. Evidenziano il motivo per il quale i due uomini, su sponde opposte, sono stati i principali protagonisti della stagione che si apre col dopo-guerra.

La vita fornisce ad entrambi gli strumenti per leggere e comprendere le drammatiche vicende del Paese, in un contesto che si avvia a divenire diverso dal mondo di ieri. De Gasperi, fino al 1918, è cittadino austro-ungarico. Vive l'apoteosi e poi il crollo dell'Impero. Gode, perciò, di un punto di vista privilegiato per capire quanto - e fino a che punto - esso debba considerarsi un baluardo dell'ordine europeo. Comprende anche, di conseguenza, il motivo per il quale un nuovo ordine sia impossibile, se basato sul mito assoluto della sovranità dello Stato nazione.

Togliatti, dal suo canto, trascorre anni cruciali, tra le due guerre, accanto a Stalin. Da lui apprende cosa significhi, in politica estera, «la contemperazione delle forze» e perché ogni scelta di politica interna debba tener conto di quel principio, rapportato agli interessi e alle esigenze dell'Impero comunista.

In una prima fase, dunque, le dinamiche internazionali favoriscono il rapporto tra i due uomini. De Gasperi, allora, trova in Togliatti un interlocutore privilegiato. Il suo obiettivo primario è quello di assicurare la continuità dello Stato e di poter affermare una linea economica che consenta al Paese di sopravvivere e svilupparsi. Capisce che, in tale prospettiva, il «vincolo esterno» verso l'URSS avrebbe reso Togliatti più disponibile di altri, di Nenni in particolare. Individua nella «svolta di Salerno», che il leader comunista impone al Pci al suo ritorno da Mosca, il portato di scelte internazionali che trovano nell'interesse dell'Unione Sovietica la loro ragione primaria. Comprende, in particolare, che Togliatti, proprio per il rispetto che deve a quel vincolo, non è interessato a una rottura rivoluzionaria per la quale mancano le condizioni sia interne che esterne. Egli, piuttosto, vorrebbe intronizzare il partito politico come «nuovo Principe», per tentare la conquista del Paese «casamatta dopo casamatta».

De Gasperi e Togliatti possono considerarsi, dunque, antifascisti con la «a» minuscola. Entrambi, indubitabilmente, oppositori strenui del regime ma entrambi persuasi che quell'opposizione non basti per fondare uno Stato nuovo. Carlo Levi in L'orologio - il romanzo nel quale narra del passaggio dal governo Parri al primo governo De Gasperi racconta, tra l'altro, di un suo viaggio da Napoli a Roma sul sedile posteriore di una macchina di Stato, con due Ministri uscenti - un degasperiano e un togliattiano - accomodati uno a destra e l'altro a sinistra. Ad addormentarsi per primo, «tranquillo e candido», è il ministro democristiano, lo segue dopo poco il comunista. La scena assume un significato metaforico. Levi incarna la Resistenza, un tempo centrale, trasformatasi in un mero appoggio, costretta in spazi angusti, sostanzialmente archiviata.

Quel che unisce i due uomini in una fase, li divide irreparabilmente in un'altra. De Gasperi nel 1947, quando mette fine alla collaborazione governativa con i comunisti, non subisce alcuna imposizione. Capisce per tempo che, nelle nuove temperie, i mutati equilibri internazionali non avrebbero reso più possibile contare su Togliatti.

Guido Carli ha visto per primo come, allora, l'obiettivo di De Gasperi non sia la rottura per la rottura, ma l'assunzione di una linea economica - quella che Einaudi gli suggerisce - in grado di evitare la bancarotta, di tenere legato a sé il partito dei risparmiatori, di impostare la ripresa. Togliatti, dal suo canto, reagisce ponendosi l'obiettivo di stabilire il suo primato su una sinistra nella quale riservare ai socialisti un ruolo ancillare. Quell'assetto, all'ombra di Stalin, avrebbe consentito al suo partito un'influenza durevole sulla politica italiana.

Questi presupposti determinano il risultato del 18 aprile 1948. Parte da lì una stagione di contrapposizione frontale. Ma prende anche avvio una stagione di riforme, nel segno dello statista trentino, che non ha eguali nella storia dell'Italia repubblicana.

De Gasperi la rende possibile imponendo la sua leadership, in uno schema istituzionale non dissimile da quello anglosassone: un Primo Ministro che può contare su gruppi parlamentari coesi e questi in posizione di preminenza nei confronti del partito, luogo di dibattito ed elaborazione ma mai di decisione d'ultima istanza. Questa concezione della vita istituzionale determina, all'interno, la competizione con Dossetti; all'esterno l'incompatibilità con Togliatti.

Ha ragione De Gasperi, fin quando il suo carisma discreto resta forte. Vengono, così, approvate in una sola legislatura la Cassa per il Mezzogiorno, il piano Vanoni, la riforma agraria, l'Eni. Quando, però, su una Dc, nel frattempo trasformatasi in «partito nazione», si scaricano tutte le contraddizioni di un così ardito programma riformistico, emerge anche la difficoltà di far funzionare lo schema istituzionale che egli avrebbe voluto imporre, in un contesto che il «fattore K» blocca e rende senza alternative possibili.

Il «vincolo esterno», questa volta, gioca a favore di Togliatti.

Il partito politico, infatti, può tornare a reclamare la centralità conquistata nella stagione resistenziale, che De Gasperi gli aveva provvisoriamente sottratto. Lo statista trentino prova a reagire. Nel 1953 impone la riforma della legge elettorale. Viene chiamata, ignominiosamente, «legge truffa»: ma se quella riforma è «una truffa», alcune delle leggi elettorali approvate o proposte a partire dal 1994, debbono considerarsi «furti con scasso».

La sconfitta di quel tentativo, però, fissa definitivamente la centralità del partito nelle vicende della Repubblica e, con essa, quella del cosiddetto «bipartitismo imperfetto» tra Dc e Pci. Quel giorno, Togliatti sconfigge De Gasperi.

La circostanza aiuta a capire perché, a lungo, la posterità del leader comunista sia stata meno controversa di quella di chi, in un contesto drammatico, sa assicurare all'Italia pane, libertà e sviluppo.

Un paradosso a cui oggi, dopo settant'anni, è giunta l'ora di porre riparo, concedendo a ciascuno il suo.

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