La mia storia da giornalista del Corriere della sera comincia nel 1974. Ci arrivo passando dal Corriere d'informazione, allora diretto da Gino Palumbo, nei confronti del quale spenderò un solo aggettivo: un grande. Devo dire che al Corriere della sera si respirava un'aria rossa, che già a quei tempi era piuttosto pesante. Per non usare mezze parole, dirò che il comitato di redazione era tenuto da comunisti. L'atmosfera in quel periodo era così, io stesso fui assunto al Corriere per errore. Pensavano fossi socialista. In effetti, io socialista lo sono stato, ma si trattava di una questione che risaliva ad alcuni anni prima. E poi io non avevo tutta questa passione politica. Venivo dalla Notte, dove mi ero occupato quasi esclusivamente di cronaca, dunque non appartenevo a quelle vere e proprie bande di giornalisti politicizzati nell'anima.
Diciamo che un po' di passione m'è venuta a quell'epoca in opposizione ai colleghi rossi che dominavano la scena. Tra l'altro, per far assumere più giornalisti, s'erano messi in testa di eliminare gli straordinari, e tenete presente che noi con gli straordinari ci campavamo. Certo, qualcuno grazie a loro è anche entrato nei giornali, ma bisognava assumere cum grano salis e invece questo non è stato fatto.
Ricapitolando, al Corriere della sera in cui mettevo piede c'era un'aria infame. Il comitato di redazione di cui parlavo era in quel periodo capeggiato da Raffaele Fiengo, oggi in pensione. Inutile negare che anche un po' in quell'ambiente lì, in quel clima, è maturato il delitto Tobagi. Ricordo bene come Walter Tobagi stesse sulle scatole a tanti. Era un socialista cattolico, e stava antipatico sia perché era bravo, sia perché riusciva a spostare un po' il tiro degli equilibri politici che si erano creati nel comitato. Era riuscito a formare un suo gruppo, al quale pure io scelsi di aderire. Oggi non solo non me ne vergogno, ma anzi mi onoro di aver fatto parte del suo entourage.
Quando Tobagi fu eliminato, tornò pienamente dominante il regime rosso. Vi spiego in due parole cosa vuol dire: tu potevi anche non essere comunista, cioè non appartenere direttamente al loro gruppo, in tal caso te la cavavi piuttosto tranquillamente. I guai c'erano per quelli che esprimevano il proprio anticomunismo, come accadeva a me e ad altri. Allora non ti lasciavano vivere, né avevi alcuna possibilità di ottenere qualcosa. All'epoca della morte di Tobagi era direttore Franco Di Bella, io ero il caposervizio del settore politico. C'era stata la proposta perché io fossi promosso all'Ufficio centrale con la qualifica di caporedattore. Sembrava tutto pronto, ma il comitato di redazione bloccò ogni mossa. Intendiamoci, il blocco non riguardò solo me, ma riuscì interamente nel suo scopo. La giustificazione fornita da Fiengo, che del comitato era il leader indiscusso, per spiegare l'ostruzionismo nei confronti di alcuni giornalisti era: «Non è omogeneo al progetto Corriere». Ora, ditemi cosa cacchio vuol dire essere «omogeneo», poi fatemi capire quale fosse il progetto, perché io progetti a cui bisognava aderire non ne ricordo. Nessuno me ne aveva mai parlato.
Ecco i metodi staliniani, ed ecco il clima nel quale si viveva e si lavorava. Ovviamente, tutti quelli che entravano a far parte delle congreghe dei comitati di redazione ne uscivano con una greca, con un cappello rosso. Inevitabilmente, ottenevano una promozione e almeno un grado in più. Da questo piccolo esercito ingrassato dalle elargizioni, devo onestamente escludere Fiengo, al quale evidentemente bastava il potere. Lui non puntava a conquistare galloni e prebende redazionali, ma solo a garantirsi quel potere sconfinato che chiaramente gestiva «pro Pci». Naturalmente negava, arrivava a sostenere di essere un liberale, una versione dei fatti buona tutt'al più per farsi quattro risate. C'è un bel libro di Michele Brambilla, uscito alcuni anni fa, che è un resoconto fedele, molto ben costruito, delle atmosfere di quegli anni. (...).
La questione delle redazioni rosse si apre un po' prima del '68. È quella la fase in cui si cominciano a inserire all'interno dei giornali, anche per ottenere iniezioni di freschezza, personaggi che vengono dalla sinistra. Un tempo le figure che contavano provenivano tutte dal mondo conservatore, avevano l'aria e quasi anche la struttura di custodi rigidi della tradizione. Naturalmente, tutto ciò escludeva grandi fermenti intellettuali. (...)
Quindi, la trasformazione e la sindacalizzazione dei corpi redazionali, in quel decennio che va dal finire dei Sessanta al finire dei Settanta, furono piuttosto radicali e molto rapide. Bisogna considerare anche altri elementi, come l'istituzione dell'ordine dei giornalisti nel '63. Se sommiamo tutti questi meccanismi che agirono e che si combinarono tra loro, comprendiamo il modo in cui avvenne questa trasfusione di sangue e anima sull'organismo della stampa italiana. Tutto questo portò riflessi pesanti nelle redazioni e nei rapporti che si svilupparono tra le scrivanie dei giornali. Una delle novità che ricordo, una delle più curiose, consisteva in una teoria mai sentita prima: gli articoli dovevano essere graditi anche ai tipografi. Guardate che non racconto favole, ma fatti che si sono verificati. Nei primissimi anni Settanta c'era al Corriere della sera un capo delle pagine degli esteri che si chiamava Carnevale. Una sera si presenta in tipografia con una pagina che ha un titolo favorevole a una posizione americana in politica estera. Il responsabile dei tipografi imbocca il fischietto e blocca il lavoro dei colleghi. Per loro il pezzo era bocciato, non erano disposti a pubblicarlo. L'articolo torna perciò in redazione e naturalmente, data la rilevanza dell'incidente, l'intero giornale si ferma.
Si convoca immediatamente un'assemblea che a maggioranza dà ragione ai tipografi. Insomma, la storia finisce col povero Carnevale, che aveva non ragione ma straragione, costretto ad andarsene. Sì, avete capito bene, fu obbligato a dimettersi.© 2013 Arnoldo Mondadori
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