L’ultima mazzata alle aziende: l’indennità di disoccupazione

L’assicurazione sociale per l’impiego (Aspi) preoccupa le imprese già provate dalla crisi Confartigianato: "Una tassa sui licenziamenti. Il costo del lavoro diventa insostenibile"

L’ultima mazzata alle aziende: l’indennità di disoccupazione

«Se disdettiamo i contratti tutti noi delle piccole imprese, commercio, artigiani, servizi, ci vanno di mezzo quasi 7 milioni di dipendenti: i metalmeccanici sono poche centinaia di migliaia, ma hanno molta più attenzione dai media. Il governo però deve pensarci: non si può fare una riforma del lavoro che ci carica di oneri insostenibili. Altrimenti, facciamo saltare il banco».
Battagliero presidente di Confartigianato, Giorgio Guerrini parla con la voce dei tanti piccoli imprenditori che nella riforma, così come è stata disegnata, vedono un laccio che rischia di strangolarli. «Bene o male in questi anni noi “piccoli” abbiamo ammortizzato la crisi: adesso ci arrivano fra capo e collo l’Aspi, cioè la nuova indennità di disoccupazione, una “tassa sui licenziamenti” che colpisce anche noi che non abbiamo l’articolo 18, l’aggravio dei costi sui contratti a termine e stagionali, in tutto più di 2 miliardi l’anno di maggiori oneri per il nostro settore. Senza parlare della pressione fiscale al 45%, dell’Imu che costerà fino al 50% in più della vecchia Ici, del credito sempre più difficile: una mazzata insostenibile per chi sta facendo sacrifici da anni».
Rete Imprese, l’organizzazione delle Pmi, ha in programma un incontro con il ministro Fornero: che proposte le farebbe? «Ci sono due partite che da oltre un decennio hanno attivi considerevoli: Inail e indennità malattie. Cioè i premi pagati da artigiani e commercianti sono largamente superiori rispetto alle prestazioni erogate: per dare un’idea, quasi un miliardo l’anno solo per l’Inail degli artigiani. Allora perché non controbilanciare i maggiori oneri da un lato con un taglio dei contributi dall’altro? Noi in azienda prima tagliamo i costi, e poi, se proprio è necessario, aumentiamo i prezzi: perchè il governo non fa altrettanto?».
«Il costo del lavoro è enorme già ora - sottolinea Gianfranco Caporlingua, imprenditore edile- e penalizza non solo le imprese ma anche i lavoratori. Oggi un mio dipendente che prende uno stipendio di 1.600 euro netti al mese costa all’impresa 57mila euro l’anno. È un bravo lavoratore, mi ha chiesto un aumento e io sarei anche d’accordo: ma per dargli 100 euro in più in busta paga io come impresa ne devo spendere cinquemila in più all’anno. In questo momento, chi se lo può permettere? E come se non bastasse, si vuole aumentare ancora il costo dei contratti a termine: ma non otterranno lo scopo sperato». Cioè, non servirà a spostare l’ago della bilancia verso le assunzioni a tempo indeterminato? «Il problema è che oggi le aziende hanno paura di assumere, perché sanno che poi non esiste elasticità: è impossibile alleggerirsi, anche se il lavoro si riduce». E la modifica dell’articolo 18? «A parte il fatto che per la maggior parte delle imprese è un problema tutt’altro che sentito, vorrei ricordare che le aziende, se hanno lavoro, assumono e hanno interesse a farlo. Adesso, certo, c’è la crisi: ma non è che si possono fare le riforme solo per la crisi». Se la riforma la facesse lei, su cosa punterebbe? «Sulla semplicità, sia di dare lavoro che di prenderne. Non dimentichiamoci che quando un’azienda dimagrisce ce n’è un’altra che si allarga: la flessibilità dovrebbe andare in questa direzione, tra le imprese, come avviene all’estero».
Paolo Galassi è il presidente di Confapi, la confederazione delle pmi manifatturiere, ma è soprattutto imprenditore di quarta generazione, nel settore chimico e metalmeccanico. E ha diversi sassolini da togliersi dalle scarpe: «Le aziende che hanno fatto innovazione sono penalizzate dalle tasse e dal costo della manodopera, che per un’impresa che ha dieci o quindici dipendenti pesa di più rispetto alle grandi aziende. E se chi è orientato soprattutto all’export si difende, chi lavora per il mercato interno non ha scampo, perché il consumatore italiano ha perso potere d’acquisto e ha un obiettivo solo: spendere meno possibile». Lo dimostra la crisi dei negozi tradizionali, soppiantati dalla concorrenza cinese a basso costo.

«Di questo, la riforma non tiene conto - commenta Galassi - Va bene estendere a tutti i settori produttivi la contribuzione per gli ammortizzatori sociali, perché se siamo in tanti a pagare spenderemo meno, almeno spero: ma se non si aumenta il Pil le imprese muoiono. Tant’è vero che il 53% dei nostri associati teme di dover licenziare. Il governo ha difeso l’Italia in Europa dall’emergenza finanziaria, ma adesso le risorse vanno date al mondo del lavoro».

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