Mafia, gli ex ministri indagati e il ruolo di Napolitano

Con una lettera il capo dello Stato sollecita il procuratore generale della Cassazione a coordinare meglio le Procure che scavano sulla trattativa

Mafia, gli ex ministri indagati  e il ruolo di Napolitano

È un mondo a parti rovesciate. Una realtà oscura e imbarazzante perché popolata da alcuni padri nobili della patria, icone della nostra coscienza che però, in quei frangenti, tengono un comportamento a dir poco sfuggente. E così la storia inquietante della cosiddetta trattativa fra lo Stato e Cosa nostra lambisce persino la memoria dell’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Probabilmente, se fosse ancora vivo, pure lui sarebbe nel registro degli indagati. Come l’ormai novantenne Giovanni Conso, presidente emerito della Corte costituzionale, e come l’ex vicepresidente del Csm e presidente del Senato Nicola Mancino, che ha trascinato l’attuale inquilino del Quirinale nel gorgo di questo affaire. Nei mesi scorsi, Mancino è stato intercettato mentre telefonava al consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio chiedendogli un intervento sulle procure che indagavano. Coincidenza: alle chiamate di Mancino, ora indagato per falsa testimonianza, segue una lettera del Quirinale che il 4 aprile scorso scrive al procuratore generale della Cassazione invocando un maggior coordinamento fra gli uffici di Palermo, Caltanissetta e Firenze, tutti concentrati sulla stessa vicenda.

Formalmente la lettera del Quirinale è ineccepibile, ma naturalmente, un messaggio può essere letto e interpretato in vari modi. Anche, malignamente, come un tentativo, nemmeno troppo sofisticato, di mettere i bastoni fra le ruote dei pm che scavano su una vicenda vecchia e però, forse, importante nella definizione degli assetti dell’Italia di oggi. Ora Antonio Di Pietro vuole una commissione d’inchiesta su questo groviglio fra passato e presente. E il portavoce del Quirinale Pasquale Cascella gli replica, senza citarlo, su twitter: «Possibile che ex magistrati ora in politica ignorino la legge?»

Si parte da lontano e si inizia con una domanda: perché muore Paolo Borsellino? Forse proprio perché aveva scoperto la trattativa fra i vertici di Cosa nostra e pezzi dello Stato. Negli ultimi giorni della sua vita - e c’è una celebre intervista di Lamberto Sposini a documentarlo - Borsellino ripete la frase pronunciata dal vicequestore Ninni Cassarà, prima di essere trucidato: «Dobbiamo convincerci che siamo cadaveri che camminano». E Borsellino va incontro come un agnello sacrificale al suo destino.

Di sicuro, in quei mesi Totò Riina preme sulle istituzioni perché allentino la presa sulle cosche. Al Viminale in quel periodo hanno fatto sul serio: Vincenzo Scotti, che lavora seguendo le indicazioni di Giovanni Falcone, ha messo a punto con l’aiuto del Guardasigilli Claudio Martelli tutti gli strumenti legislativi necessari per affrontare la battaglia con la mafia: il 41 bis, che è il terrore dei Corleonesi, la procura nazionale antimafia e la Dia. Poi Falcone salta in aria e improvvisamente alla fine di giugno, in un drammatico momento di emergenza nazionale, Scotti viene allontanato senza tanti complimenti dall’Interno. Gli equilibri stanno cambiando. La strage di Capaci porta a razzo Scalfaro al Quirinale e al suo posto, alla presidenza della Camera, arriva Giorgio Napolitano; il valzer prosegue un mese dopo: via Scotti al Viminale è il momento di Mancino che ora, smemorato, dice di non ricordare nemmeno l’incontro con Borsellino il 1 luglio, diciotto giorni prima della strage di via d’Amelio. Strano: nel suo libro Pax mafiosa o guerra? (Eurilink) è Scotti, ormai con gli scatoloni in mano, a incrociare al Viminale, «in fondo al corridoio», Borsellino. E a smentire il suo successore su un episodio piccolo piccolo ma parte del martirologio nazionale.

Certo, fra il 92 e il 93 la mafia colpisce con ferocia e lo Stato, sotterraneamente, cede almeno in parte al ricatto. Si scopre ora che il Guardasigilli Giovanni Conso straccia centinaia di decreti relativi al 41 bis. Lui si giustifica sostenendo di aver fatto tutto in solitudine, ma nessuno gli crede e Conso è indagato per false dichiarazioni ai pm. Sotto la presidenza Scalfaro viene catturato Totò Riina, ma dietro le quinte le istituzioni assumono in modo trasversale agli schieramenti politici un atteggiamento più malleabile, più light con Cosa nostra. In simultanea la rottamazione della Prima repubblica si porta via, fra avvisi di garanzia e delegittimazioni, gli Scotti, i Martelli e molti protagonisti della vita politica. Si arriva così all’oggi e all’agitazione di Mancino. Che a ottobre scorso chiama e richiama D’Ambrosio. Le cimici della procura di Palermo intercettano i dialoghi in cui Mancino si sfoga e vuole sapere come evitare quei «faccia a faccia» con Scotti e Martelli. D’Ambrosio, magistrato di lungo corso, misura le parole: «Intervenire sui colleghi è una cosa molto delicata». Mancino, preoccupatissimo, rilancia e chiede l’intervento del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. Il 4 aprile il segretario generale del Quirinale Donato Marra firma la lettera indirizzata al pg della Cassazione in cui disserta sul coordinamento fra i diversi uffici. Non è più Vitaliano Esposito ma Gianfranco Ciani. E puntualmente D’Ambrosio viene intercettato mentre aggiorna Mancino: «Ho parlato con Ciani, hanno voluto una lettera così fatta per sentirsi più forti».

Alla fine i temuti confronti non si faranno: il

tribunale non li ha ritenuti necessari. Vent’anni dopo la trattativa, i vecchi protagonisti riempiono ancora il palcoscenico con racconti sconcertanti, strane amnesie, piccole trattative e trame sul crinale fra storia e cronaca.

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