"Avevo solo una fissazione nella mia vita, quella di fare l’investigatore. E sono felice di esserci riuscito". Erano i giorni dell’Assemblea generale dell’Interpol, nel novembre scorso, quando Antonio Manganelli - orgoglioso del fatto che proprio l’Italia fosse stata scelta per ospitare l’incontro tra i capi di quasi duecento polizie di tutto il mondo - ribadiva ai giornalisti come il suo essere "poliziotto" fosse molto più di un mestiere, quasi una missione. Una missione, una passione onorata fino in fondo anche nei giorni della malattia che l’aveva costretto ad un periodo di cure negli States senza però riuscire mai davvero a strapparlo al suo lavoro.
"Orgoglioso di essere il capo di donne e uomini che quotidianamente garantiscono la sicurezza e la democrazia di questo Paese", Manganelli è sempre stato pronto a riconoscerne gli errori. Ricordiamo il sentito incontro con i genitori di Federico Aldrovandi, il18enne ucciso durante un controllo di polizia a Ferrara nel settembre 2005 (quattro gli agenti condannati) e le parole, undici anni dopo l’irruzione alla Diaz, all’indomani del verdetto della Cassazione che confermò le condanne d’appello per falso nei confronti della catena di comando all’epoca del G8 di Genova. "Questo è il momento delle scuse.
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