Nel partito finito in macerie Renzi si ritrova all'angolo

Il sindaco ha caldeggiato il governo di larghe intese, ma le elezioni si allontanano. Al congresso sa di avere poche speranze. E rallenta: "Candidato? C'è tempo"

Nel partito finito in macerie Renzi si ritrova all'angolo

Roma - Passeggiare sulle macerie, il giorno dopo la bomba chimica, ha un chè d'istruttivo. Qua e là brandelli e orrende vestigia, spezzoni di storie, segni compassionevoli. Talora premonitori. Inciampi sempre nel senno del poi, dunque un D'Alema che ha organizzato il delitto perfetto senza impronte, un Bersani che in fondo agognava l'evento chiarificatore (anche se nella notte delle dimissioni ha pianto e sfiorato il corpo a corpo), un Renzi che lesto e ganzo trova «molto positivo se Napolitano accettasse un bis». Per non parlare del gaudio magno che arriva dai renziani alla rielezione del Presidente in carica.
Ma la situazione, se resta drammatica per il Pd, non volge al roseo neppure per il sindaco di Firenze. Che, avendo proposto e premuto per la soluzione Prodi, oggi si trova tra gli sconfitti. Il governo che nascerà - sempre che nasca - gli sottrae l'arma migliore, le elezioni a breve. Paradossalmente, pur andando verso la formula Pd-Pdl da lui vagheggiata, trascende di significato e non porta acqua al mulino di Palazzo Vecchio. Per di più, il campo dei veleni sul quale si aggira «attonito il corpaccione del partito» ha più d'un motivo per vedere in Renzi un nemico, un «corpo estraneo» e reagire quasi con sindrome del rigetto. «Renzi ora si sgonfia», è la diagnosi che pecca di speranza. Viene coniugata con l'idea che Matteo sia una sorta di «grillino istituzionalizzato», e dunque pericoloso come quelli che gridano in piazza Montecitorio.

Restare di lotta e di governo non sarà più tanto facile. Anche il sindaco ne ha preso atto e, dopo le «sagge e inevitabili dimissioni di Bersani» (così le chiama), indossa di nuovo la maschera della responsabilità. «Io candidato al congresso del partito? C'è tempo», fa sapere lui che non dava mai tempo. In effetti, è diffusa la consapevolezza che il congresso non potrà più essere celebrato in autunno, ma prima dell'estate. Come confermano un po' tutti: dalla Puppato a Mineo, a Orfini. Attraverso quale percorso, però, è tutto ancora da vedere. Il caso dei «franchi tiratori», quello sul quale si accentua la polemica dei renziani, «è inaccettabile, disgustoso, vergognoso e va affrontato in sede politica». Per Gentiloni, «in questo massacro ciò che riguarda Renzi è molto marginale, porremo a suo tempo la questione della sua leadership». Ma che il Pd possa diventare una «lista Renzi», a detta dello stesso ex lottacontinuista, rutelliano e ora renziano Gentiloni, «non esiste». È cambiato lo scenario e la situazione di Renzi «sembra un po' quella di Mussolini nel '22, quando aveva due biglietti in tasca: uno per Roma e l'altro per Lugano», ironizza il leader socialista Riccardo Nencini. È impensabile che un partito avvelenato come questo possa consegnarsi al Rottamatore proprio ora che si sono sfilacciati fragili legami che lo tenevano assieme. «Ci sono due partiti - spiega Corradino Mineo, che tenta di mettersi sulla scia del nuovo senza abbandonare il vecchio - Uno è quello della fusione a freddo degli apparati, l'altro è quello costruito da Bersani, fatto di primarie, giovani e società civile».

Ma in realtà il Pd oggi è uno specchio deformante che rimanda decine di immagini diverse, nessuna delle quali calata sull'identità. Piuttosto sul risentimento. Gli ex-ppi non hanno dimenticato come Renzi ha trattato Marini, i prodiani lo sospettano di «uso spregiudicato del Padre fondatore» (per non dir di peggio), i franceschiniani non si fidano, i dalemiani non lo perdonano per il passato, bersaniani e giovani turchi per il presente. Si dice che Veltroni e Fassino siano pronti a dargli le chiavi di casa, ma si tratta pure di dirigenti in disarmo, che quelle chiavi non le hanno più. «Renzi potrà essere una soluzione, ma va riempito di contenuti», sostiene Bruno Tabacci che pure lo sente e gradirebbe una sua Opa sul Pd. Altrimenti non resterebbe che la scissione. «Renzi fuori dal Pd? E dove va? Sarebbe finito», profetizza Mineo.

E difatti il sindaco s'aggrappa alla considerazione che «il partito esiste» e che «adesso ha l'occasione di cambiare davvero, senza paura. Ci proveremo». Ma dove possa trovare gli spazi d'agibilità, all'interno e all'esterno, resta nebulosa d'altro sistema solare. Con il «buco nero» del Pd che rischia d'inghiottire ogni astro nascente.

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