Hanno fatto la lista grande, gli occhiuti inquisitori di Palermo, e ora al centro dei processi di criminalizzazione della politica stanno in due, il presidente Napolitano e il noto Arcinemico dei salotti che contano. I soloni che parlano di Berlusconi come di un estraneo alla democrazia repubblicana, un avventizio, di questi tempi hanno di che riflettere. Non perché Berlusconi non abbia certi caratteri di persona privata diversi dai canoni del protocollo istituzionale che fa parte della tradizione pubblica italiana. Il Cav è certamente un outsider, ma bisogna intendersi.
Fatto è che il partito dei giudici vincitori di concorso ha messo da tempo nel mirino la Repubblica, la governabilità delle istituzioni mediante accordi tra forze diverse, il baricentro politico della democrazia che dipende dall'autonomia del Parlamento, la sovranità espressa attraverso la rappresentanza popolare, la stessa storia d'Italia, e la rotta è sempre tracciata da due grandi procure essenzialmente: Milano e Palermo. E il punto d'approdo, ora lo si vede, comprende Berlusconi e una lunga lista di reggitori dello Stato e di espressioni al massimo livello della vita dei partiti democratici, la blacklist dei militanti in toga. Sarà un outsider, non ne dubito, ma come candidato al mascariamento di rito palermitano e ambrosiano Berlusconi è in ottima compagnia.
Il fenomeno ha un'evidenza «plastica», come dicono i pedanti. Mentre procedono i dibattimenti sommari che prevedono a Milano il linciaggio morale dell'ex presidente del Consiglio, il presidente della Repubblica, e con lui l'insieme dei reggitori delle istituzioni italiane negli ultimi vent'anni almeno, Carlo Azeglio Ciampi compreso, deve deporre in un processo in cui si ipotizza una trattativa criminale tra Stato e mafia: l'iniziativa non ha precedenti, perché si tratta di dare testimonianza su atti compiuti da Giorgio Napolitano nell'esercizio delle sue funzioni «irresponsabili» costituzionalmente; e tutto questo sfruculiare politico dipende dalla Procura palermitana appena uscita dall'imbroglio delle intercettazioni abusive al Quirinale e dalla figura di peracottaro rimediata alle elezioni dal suo ex capo ideologico dottore Antonio Ingroia.
Stragi, trattativa, agenda rossa: sono i cascami di lunghi anni di indagini, sempre reiterate sotto la fascicolazione di «sistemi criminali», che hanno avuto come obiettivo, in una prima fase, di dimostrare per teoremi che la nascita del partito che ha rinnovato la democrazia italiana e a sorpresa ha scombinato i giochi delle note lobby, Forza Italia appunto, sarebbe avvenuta in un contesto criminale e stragista. Non era in questione il mascariamento del solo Giulio Andreotti. Il problema era affondare il colpo nel profondo, era di «teorizzare» (infatti si tratta di teoremi, non di ordinari processi con prove documentali e testimoniali) un passaggio criminale dalla vecchia Repubblica fondata sui partiti garanti della Costituzione alla nuova Repubblica nata dalla loro crisi, dalla legge elettorale maggioritaria e dal radicale cambiamento di stile e di sostanza politica introdotto dalla entrata in lizza, nella politica italiana, degli uomini nuovi del berlusconismo e del loro capo (1994). Nell'inchiesta, e nel suo cascame arrivato a giudizio, era centrale, e in un certo senso ancora lo è, la figura dell'ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, la cui memoria è ritirata in ballo in questi giorni di massacro procedurale e penale. E Scalfaro, come ben sanno i lettori di questo giornale, è sempre stato un nemico focoso, partigiano e irriducibile di Berlusconi e di tutto quello che in politica significò l'uomo che ha rilevato il fallimento della Democrazia cristiana e del Partito comunista, dopo la caduta del muro di Berlino, per curare il passaggio a una nuova forma di governo e di Stato.
Il vecchio politico d'apparato Scalfaro, colui che ingannò il capo del governo «nuovista» del '94 sulla data delle elezioni, e che tramò apertamente con Bossi e altri politici per sbalzarlo di sella, è nella stessa lista ideale e nello stesso contesto criminale con il suo storico avversario Berlusconi e con l'attuale capo dello Stato, al quale si rimprovera senza sfumature e sottigliezze, con una campagna mediatica alimentata nei tribunali, il reato di aver coperto con la sua responsabilità personale diretta il passaggio delle consegne, in un quadro di sulfurea complicità con la mafia, dalla prima alla seconda Repubblica. Se è per definire responsabilità basate su fatti, e per far funzionare il codice penale nello Stato di diritto, i magistrati palermitani dell'accusa, che rimedieranno un'altra brutta figura in giudizio, sono piuttosto manchevoli; ma se è per farci capire che la nostra storia degli ultimi vent'anni è stata fatta, insieme, da forze sociali politiche diverse, le quali oggi, sarà un caso, si ritrovano per la prima volta insieme nel governo del Paese, e che questo è l'incubo delle solite lobby, bè, in questo a Palermo sono inappuntabili.
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di Giuliano Ferrara
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