Il sonno della ragione genera mostri, e il disastro di Bersani genera Prodi. Andiamo con ordine. Il segretario del Pd è a fine carriera per un motivo che tutti capiscono: insufficienza personale, inidoneità alla leadership. Non ci sa fare. Si ritrova con una non vittoria elettorale, dopo una campagna soporosa. Ma si ritrova con la massima responsabilità per lo stallo in cui ha cacciato il Paese. Voleva la foto di Vasto con Vendola e l'alleanza con il centro. Vasto, Vendola e il centro sono scomparsi nelle brume. Mario Monti lascia come capopartito (era ora: lo dico per lui e per noi), e restano truppe sparse senza nome che si metteranno agli ordini di Renzi o di altri feudatari piddini dell'ultima ora. Casini è un fantasma. Ma Bersani non vuole un'intesa con Berlusconi, obbligata per via dei numeri parlamentari e della realtà dei rapporti di forza nel Paese, urgente per un governo all'altezza della situazione incandescente dei conti pubblici e dell'economia reale in crisi; la sua ostinazione sul governo di minoranza, un lusso che oggi non si potrebbe permettere nessuno, è considerata grottesca dal presidente della Repubblica, che l'ha giustamente impallinata, e dal grosso del suo partito (e non voglio tornare sul trattamento che a Gargamella ha inflitto quel teppista allegro di Beppe Grillo). Ha in mano, il compagno segretario, un partito completamente feudalizzato dalle correnti e dalle lobby, fino al ridicolo di una candidatura «di sinistra», come quella di Fabrizio Barca, generata da un tecnocrate estraneo al Pd, fresco di nomina nel dannatissimo governo Monti (e che in un anno e mezzo si è segnalato per aver chiacchierato tanto di coesione, fatto ovviamente nulla). Ma questa balcanizzazione è farina del sacco bersaniano, carburante incendiario attinto alla pompa di benzina di Bettola. Il titolare ha promosso Renzi avversario strategico con le primarie, poi lo ha marginalizzato in campagna elettorale e ha lasciato che fosse umiliato (e fortemente innervosito) da quattro consiglieri regionali toscani alla vigilia dell'elezione del capo dello Stato. Ha coltivato una corrente di giovani neolaburisti, che chiacchierano di un mondo ideologico inesistente dovunque, morto e sepolto da decenni, e questa corrente cosiddetta «turca» gli si sta rivoltando contro. Allo spezzettamento baronale del Pd contribuiscono vecchie care immagini come la Bindi e il barbuto romanziere Franceschini, entrambi in rivolta. Gli elefanti del partito come D'Alema e Veltroni sono fuori, e lavorano per rimanere dentro accerchiando una segreteria emiliana ormai spenta. Alle Camere sono stati promossi i quaquaraquà e le quaquaraquesse, la mascherata della società civile. Devo continuare?
Ecce Prodi. Se tutto risulta bloccato da un soldato affetto da evidente insufficienza toracica, ecco che lo stato maggiore si preoccupa, cerca soluzioni d'emergenza, passa oltre una cortina di risentimenti, che nel caso di Prodi è lunga come la più lunga delle code di paglia, e tende a fare gruppo intorno a un nome che taglia il nodo, visto che la leadership non è capace di scioglierlo. Se il segretario lastrica di mancate intese le vie del suo inferno, perché gli mancano i peli sullo stomaco, gli manca l'astuzia, gli manca quasi tutto tranne l'onore personale e una certa competenza da ministero di rango intermedio, viene il momento della rottura, guidata da altri, e lui minaccia di acconciarsi con la candidatura dell'ex tutto dell'Ulivo. Ora, a me i Prodi piacciono. Amo Reggio Emilia, Bologna, il paesaggio appenninico, e vado pazzo per le famiglie numerose piene di professori davvero competenti e anche bizzarri, come sono i fratelli o alcuni dei milioni di fratelli di Romano. Ma di Prodi come politico diffido, e molto. È anche lui uno di quelli che, avviato al catechismo da Giulio Andreotti, alla prima occasione si è mascherato da società civile, e ha impresso all'ulivismo le stimmate, e sopra tutto il birignao, di una velleitaria antipolitica di serie B. Ha una cultura economica da solidarista senza arte né parte, nel senso che non l'ha mai realizzata in opere e mai la realizzerà. È vendicativo come carattere, talvolta oscenamente. Ha parlato male, come un qualsiasi Ken Livingstone, ma senza il rango di una vittima della Iron Lady, di Margaret Thatcher, cui non avrebbe potuto allacciare nemmeno la cinghia della borsetta. La sua candidatura avanza nel segno della chiusura dei conti con Berlusconi, dunque della divisione ulteriore del Paese e dell'umiliazione di quei poveri cristi che il Cav l'hanno votato per vent'anni («il nulla, il nulla, il nulla»: si lasciò sfuggire una volta con tono ribaldo il Romano, parlando dei berluscones). L'unica consolazione è che, dovesse avere successo la congiura universale del Pd sconfitto per portare al Quirinale un carattere che è l'opposto della gentlemanship partenopea di Napolitano, i primi a pagarla cara sarebbero poi proprio loro, i congiurati D'Alema, Veltroni e altri di cui si parla.
di Giuliano Ferrara
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