Pd telefono casa. «Non riesco a parlare con nessuno. Ci provo, ma sento solo squilli a vuoti». Carlo Calenda è un piccolo extraterrestre che si è perso. È un dito che indica una galassia lontana. È una speranza smarrita nei non luoghi della politica. È una bicicletta che sogna la luna. È un campo magnetico che non attira nessuno e si stringe e si allarga come un fegato pulsante, inseguendo i propri umori, con tante battaglie da fare ma che gli altri per dispetto, ignavia o miopia fingono o si ostinano a non vedere. È una canzone di Eugenio Finardi: «Extraterrestre, portami via. Voglio una stella che sia tutta mia.
Extraterrestre, vienimi a cercare. Voglio un pianeta su cui ricominciare». Carlo Calenda è Roma, Abruzzo, Basilicata e una vocazione a sentirsi troppo grande rispetto ai numeri che ha in tasca. È il sette per cento su cui scommette in Europa e un quindici alle elezioni, non le prossime, ma quello di un futuro più o meno remoto che la notte lo prende alle spalle e avvolge le pagine sparse del suo libro dell'Es. Calenda è sempre Io e Super Io, essere e dover essere, con la scimmia nuda balla. È Occidentali's Karma. È la carta di riserva che nessuno pesca. È l'opposizione dell'opposizione e il campo largo immaginario della maggioranza. È uno che sbircia il futuro ma è troppo pigro per inseguirlo. È uno che ogni tanto vorrebbe vestirsi da Pannella, convinto che la differenza con Giacinto detto Marco sia in fondo l'assenza di un codino bianco e quella maledetta inidoneità a qualsiasi digiuno.
È lo sguardo nella nebbia fino all'ultimo orizzonte, perché in fondo Calenda è rimasto sempre Enrico, il bambino di terza elementare che si confessa nel libro Cuore. E c'è sempre un Matteo Franti da deprecare e tenere alla larga.
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