Perché calcio e politica raccontano la verità: non siamo tutti uguali

Il peso dei numeri uno. Nessuno è necessario, ma fino a quando c'è. Poi, all'improvviso, il necessario manca

Perché calcio e politica raccontano la verità: non siamo tutti uguali

Tutte palle. Alla fine, quando fai due conti, manca lui, l'io, l'individuo, quello che fa la differenza, l'uomo in più, l'unico che può creare il gesto inatteso, la sorpresa, la speranza. Senza, si arranca. Sono più di quarant'anni che ci raccontiamo la favola del collettivo, del calcio totale, democratico, senza ruoli e «indispensabili», dimenticando che anche la leggenda arancione dell'Olanda era la profezia di un numero 14. Sono più di quarant'anni che cerchiamo di convincerci che siamo tutti uguali. Ma Enrico Letta non sarà mai come Renzi, né Alfano potrà mai essere Berlusconi. Perché non è vero che sono tutti titolari, che l'individuo, nel calcio come nella vita, conta per uno. Qualche volta conta un po' di più e te ne accorgi proprio quando non c'è, quando è fuori squadra, quando quel posto che sembra coperto, occupato, lascia comunque un po' di vuoto.

Nessuno è necessario, vero, ma fino a quando c'è. Poi, all'improvviso, il necessario manca. È quello che accade con la libertà, te ne accorgi quando la perdi. Prima è una di quelle tante cose che nell'esistenza quotidiana finiamo per dare per scontate. Accade così che la Roma senza Totti non ha più la chiesa al centro del villaggio e smarrisce la strada per la vittoria. Accade che la Juve si danni per trovare un'alternativa a Pirlo, ora che questo 4 con la testa e il piede da 10, un puro salto genetico nell'evoluzione della specie pallonara, dovrà restare fermo due mesi. Si scopre che il Barcellona, macchina perfetta che gioca a memoria, non ha più quel tic-tac inebriante. È stonata e senza la Pulce Messi è una squadra qualunque, che perde due partite di seguito, come capita ai mortali. E così il Milan, per ritrovare un futuro, deve aggrapparsi al ritorno romantico di un brasiliano dato per finito, un usato che sembrava buono solo per la rottamazione, ormai incapace di mettere in scena quella corsa in progressione, la corsa alla Kakà. Qualcuno pensava perfino di metterlo a dirigere il traffico, come un vigile, un vecchio ghisa, utile solo come feticcio e portafortuna. E invece Kakà in rossonero ha ritrovato i superpoteri e soprattutto il carisma del leader. E per il Milan è stato come guardarsi allo specchio e riconoscersi. La verità è che Pjanic non è ancora Totti, che gli anni di Pirlo sono un problema bianconero e che tattiche e strategie non possono fare a meno dell'individuo. Le idee hanno bisogno di individui. Lo vedi nelle aziende, nelle imprese, nelle famiglie, nei partiti. Alla fine la differenza la fa quella cosa così difficile da definire, impalpabile. Potremmo chiamarla il quid, quel non so che, talento, carattere, particolarità, destino. Senza, ti manca qualcosa, tanto che perfino la sinistra ora è costretta ad affidarsi all'individuo, sposando Renzi. Perché è lì, nell'io che le idee si incarnano, che gli schemi trovano un approdo.

Stare nel gruppo è più saggio e conveniente. Ma il gruppo è scontato, mentre l'io scantona, fa quel passo in più che spesso è decisivo. Solo che la parola individuo fa paura. Sa di bestemmia. È scorretta, perché per troppi anni abbiamo venerato le masse, le classi e, sottobanco, le lobby.

È scorretta perché ti impone di fare i conti con te stesso. E accettare differenze e diversità. L'individuo non si può nascondere, non divide le responsabilità, non perde e non vince con gli altri. Paga e incassa da solo. La prima cosa fa paura, la seconda crea invidia.

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