Renzi e Bersani ai ferri corti «Qui rischiamo la scissione»

RomaSiccome poi al mondo tutto si tiene, è facile intravvedere persino sottili legami tra le dimissioni di Vendola da deputato - «troppe meschinità, scelgo di fare il governatore» - e gli stracci che volano nel Pd, partito che soltanto un salutare scossone potrebbe redimere.
È difatti la «sindrome-Vendola» quella che muove il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, ad alzare il tiro sul quartier generale prima che sia troppo tardi. Prima che le spire del partitone che tutto fagocita possano affievolire la propria «spinta propulsiva», far tramontare sul nascere una leadership «anomala» perché nata fuori dalle sacre stanze. Proprio com'è accaduto, una piccola dose di veleno avvilente al giorno, al governatore pugliese dopo esser stato salutato come homo novus della sinistra. «Non si comprende il nervosismo di Renzi», dicono ora dalle parti del Nazareno gli uomini del segretario. Ben sapendo che più il brodo s'allunga, meno chance avrà il rottamatore. Al quale non resta che insistere per le elezioni: «La politica è ferma, abbiamo votato da 46 giorni e ancora non si può governare. Se Bersani e Berlusconi riterranno di fare una qualche forma di accordo, lo facciano presto. Altrimenti, se dipendesse da me tornerei alle urne domani mattina». Prima che il gramo destino di chi è escluso dalla consorteria del Nazareno faccia il suo corso.
Nella serie di «quotidiane molestie», come ieri le ha definite un Bersani fuori dalla grazia di dio, tocca così di assistere ai sospetti incrociati e al giallo di una telefonata partita dai maggiorenti romani per affondare la candidatura di Renzi a «grande elettore» della Toscana e assestargli un ceffone. Cosa puntualmente avvenuta ieri nel Consiglio toscano, che ha votato a maggioranza per Rossi e Monaci (più Benedetti, in quota minoranza). Il sindaco, già sfiduciato ier l'altro, non l'ha presa bene: «Era una possibilità, non certo un diritto o me l'aveva prescritto il dottore... Qualcuno mi aveva detto vai avanti tranquillo, ti votiamo, ma poi è arrivata qualche telefonata da Roma per fare il contrario». Stupefacente l'irruenza nel prosieguo dello sfogo. «Mi spiace, non mi abituerò mai alla doppiezza di chi parla in un modo e agisce in un altro. Ai doppiogiochisti dico: forse non riuscirò a cambiare la politica, ma la politica comunque non cambierà me: quando ho da dire qualcosa lo dico in faccia, a viso aperto e non mi nascondo dietro i giochini».
Gelida la replica di Bersani: «Mi vedo attribuiti non so quali giochini... Telefonate? Chiedete alla Telecom. Smentisco dunque di aver deciso o anche solo suggerito, a anche solo pensato alcunché, a proposito di una scelta che riguarda unicamente il consiglio regionale della Toscana». Ugualmente gattopardesco il commento di Vannino Chiti: «Ha prevalso una linea di continuità in una prassi, normalmente i grandi elettori sono il presidente di Regione e del Consiglio regionale. Non sarebbe stato uno scandalo, ma questa è la prassi, tutto qua». Si tira fuori Dario Franceschini, chiamato in causa dal governatore toscano: «Non c'entro nulla, doveva prevalere il buonsenso. Ma per la prima volta - sarà poi la sua amara analisi in serata - temo una scissione nel partito».
Già, perché i renziani non l'hanno preso come uno smacco, bensì per l'ennesima dichiarazione di guerra. «Siamo prigionieri della sindrome di Tafazzi», dice la senatrice fiorentina Rosa Maria Di Giorgi. «Qualcuno nel Pd non ha la coscienza apposto», insinua il capogruppo del Pd al Comune, Francesco Bonifazi. «Hanno scelto la divisione», deduce il senatore Andrea Marcucci.

«Renzi vittima della partitocrazia», «Una cazzata», «Non c'è niente di nuovo...», lamentano renziani d'ogni ordine e grado. Vero, niente di nuovo sotto il sole. Il Pd annega, e più si agita più annega. Il salvagente fiorentino essendo ciambella di piombo.

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