Renzi fa peggio della prima Repubblica

Il piano svelato in un fuorionda: "Se perdo porto amici miei in Parlamento"

Renzi fa peggio della prima Repubblica

«Se perdo porterò un po’ di amici miei in Parlamento»: così, in un fuorionda a Radio 105 , Mat­teo Renzi ha rivelato come è an­data a finire la sua scintillante campagna per le primarie. Par­tito per rottamare un’intera classe dirigente, e soprattutto una cultura politica conserva­trice e consociativa, il sindaco di Firenze si appresta a condivi­der­e con quella stessa classe di­rigente una quota più o meno grande di potere. Un po’ poco, per il Tony Blair italiano. Ma è davvero così? È Renzi ad aver scelto l’accordo più o meno sot­tobanco, o è il corpaccione del Pd che l’ha obbligato ad un og­gettivo passo indietro?

Il sindaco di Firenze non ha mai detto di voler fondare un suo movimento, e anzi ha sem­pre giurato il contrario, aggiun­gendo che in caso di sconfitta avrebbe appoggiato Bersani e sarebbe tornato nella sua città. Ma è anche vero che intorno a lui, nella prima fase della cam­pagna, si erano venuti creando un’aspettativa e un interesse che andavano molto al di là del recinto elettorale del centrosi­nistra. E che non si sono affatto spenti: proprio ieri il Sole24Ore ha pubblicato un sondaggio del professor D’Alimonte che asse­gna il 44% ad una coalizione gui­data da Renzi, e soltanto il 35% ad una guidata da Bersani.

Renzi, tuttavia, non ha pigia­to l’acceleratore e, anzi, ha inse­rito la retromarcia: l’ultima par­te della sua campagna, a partire dal dibattito su Sky , ha messo in secondo piano il tema della rot­tamazione (e in generale della rottura con il passato). Lo sco­po è quello di rassicurare l’opi­nione pubblica più vicina al Pd, bombardata ogni giorno dalle accuse che i bersaniani di ogni rito scagliano contro Renzi, fi­no a dipingerlo come un corpo estraneo, o persino come la quinta colonna dell’intramon­tabile diavolo Berlusconi. Gli strateghi della campagna ren­ziana hanno dovuto correre ai ripari. Con il rischio, però, di an­nebbiare l’identità del leader.

La verità è che la mossa di Ren­zi è stata pesantemente deter­minata dal campo di gioco. Di fronte alle sue prime vere pri­marie (in tutte le altre, a livello nazionale, il vincitore era già no­to prima di cominciare), il Pd ha reagito nel modo che meglio conosce e che da più tempo sa praticare: la mobilitazione del­l’apparato. Che non significa soltanto schierare in battaglia migliaia di funzionari, assesso­ri, sindaci, consiglieri comuna­li, consiglieri provinciali e regio­nali, amministratori e presiden­ti di municipalizzate e parteci­pate, e così via lungo la filiera in­finita della politica di professio­ne.

Mobilitare l’apparato signifi­ca soprattutto adottarne il mo­do di pensare, la cultura politi­ca, le forme della propaganda. I comunisti di oggi non mangia­no i bambini, né vogliono nazio­nalizzare la Fiat ( o forse sì?), ma faticano a concepire una lotta politica fra pari grado: chi non è d’accordo con il segretario, e lo sfida anziché piegarsi al com­promesso, non esprime un’opi­nione altrettanto legittima, ma è un «dissidente». E il «dissen­so » - parola sovietica per eccel­lenza - può essere alternativa­mente represso o tollerato, ma non ha mai la stessa legittimità della posizione ufficiale.

Rosy Bindi, assai più del sem­pre criticato D’Alema, rappre­senta alla perfezione il residuo «comunista» del Pd, e cioè l’in­tolleranza per le posizioni al­trui, il senso di superiorità, l’ar­roganza della conservazione e del potere. Ma di Bindi il Pd ne ha un esercito intero, in ogni corrente e per ogni fascia d’età. È questo ventre molle del parti­to, stratificatosi negli anni e abi­tua­to alla cooptazione e al com­promesso, che ha frenato la cor­sa di Renzi fino ad imporgli il cambio di passo.

Domenica co­nosceremo il risultato. Il sinda­co di Firenze, però, sembra es­sersi già preparato alla sconfit­ta: «Cercherò di avere un po’ di spazio- ha detto ieri nel famoso fuorionda radiofonico - ma io non mi faccio comprare».

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