Roma - Il «famolo strano» s'avanza con il passare delle ore tra i banchi dell'emiciclo, sui tappeti rossi, nei conciliaboli riservati della Corea (l'area tornata inaccessibile ai comuni mortali), sul whatsapp che costa meno degli sms e permette rapide comunicazioni tra grillini, montezemoliani, renziani e il loro Capo. Che da Grande elettore mancato dirige il traffico in qualità di Gran Sabotatore. E che piomba in serata sulla Capitale per raccogliere le messi del suo dannarsi l'anima. I cocci del Pd. Raduno a cena da Eataly del suo amico Farinetti. «Non ho problemi a incontrar Bersani», dice. «Oggi ci siamo divisi, domani speriamo di no». Frena solo quando gli riferiscono la frase forte dei suoi su Bersani: «Il cavallo ferito va abbattuto». E lui: «Sono parole lontanissime da me».
Lo schiaffo della candidatura di Marini arde sulle gote del sindaco di Firenze quando, già nella nottata prima del voto, lancia la bolla di scomunica: «Votare Marini significa fare un dispetto al Paese». Irritazione prontamente recepita da Grillo: «Bravo Renzi, mica stupido, il ragazzo». Nel frattempo viene mobilitato anche il popolo del web, che si abbatte con virulenza sugli eletti del Pd. Si registrano defezioni ingrate, come quella dell'abruzzese Pezzopane (che deve il suo seggio a Marini), o sconvolgenti, come quella della Moretti, già ancella del verbo bersaniano. L'ordine di scuderia dei renziani, alla prima votazione, è evitare di farsi contare ma nel contempo far emergere una sollevazione diffusa. Diffondere il panico. Una quarantina converge sul nome scelto come segnale, quello di Sergio Chiamparino, una decina vanno su Rodotà, gli altri si camuffano nelle schede bianche o disperdono il voto. La tecnica ha grande successo, perché nel frattempo incrocia il maldipancia dei dalemiani. «Marini è saltato, evidente», dichiara Renzi nel suo bollettino di guerra. Il partito annientato, Bersani dimezzato.
Si passa alla fase due della guerriglia. C'è da ricostruire il partito. Se ne accorge Andrea Orlando che in un corridoio manda in soffitta l'idea delle larghe intese, «ora c'è da pensare all'unità del partito». Ci vuole una personalità in grado di farlo. «Bisogna convergere su un nome solo, un nome che ci unisca», ragiona Nicola Latorre. Ma i nomi sono sempre quei due, da vent'anni: D'Alema o Prodi. Con una differenza: se si vuole premere per le elezioni anticipate e reagire all'abbraccio con il Cav, nel D'Alema non v'è certezza. Troppa aria di «inciucio», ormai qualsiasi intesa con Berlusconi è deflagrante per un partito che non si tiene più nemmeno con lo sputo. L'unica salvezza sta nello stellone di Prodi, l'Arcinemico. L'antiberlusconiano con i fiocchi. «Io comincio a votarlo», annuncia Bruno Tabacci, che raccorda l'area renziana con i centristi e non disdegna voti grillini. «Ben vengano», dice apprendendo che Grillo vuole infilarsi a pesce nella ferita: «Alla quarta noi Prodi lo votiamo».
Si va alle prove generali. Nella seconda votazione i renziani si radunano sotto le insegne di Chiamparino, il Prodi Mascherato, che fa novanta (voti), come la paura. Bisogna fare massa critica, dimostrare che una base c'è ed è pronta. Marini ancora resiste, gli ex Popolari sono tentati dalla vendetta. Dario Franceschini prende da parte Pippo Civati, che ha tenuto i contatti con i grillini e medita addirittura di lanciare un appello assieme a Renzi, e sonda la possibilità che davvero Prodi possa far uscire tutti dal dramma. Incapaci di decidere, senza più guida, sceglieranno con le primarie. Intanto si fanno due conti: con Prodi si recupera Sel e, con i grillini, non ci sarebbero problemi. Altrimenti con Monti.
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