Il voto è mio e lo gestisco io. Parlare di elezioni e democrazia nelle vicinanze del Quirinale è come bestemmiare in chiesa. Il presidente della Repubblica queste cose populiste non vuole neppure sentirle nominare. Si indigna, si indispettisce, gli bloccano la digestione e disturbano il sonnellino pomeridiano. Sembra che negli ultimi tempi il clamore sia diventato davvero fastidioso, roba da non chiudere occhio. Così un Napolitano stizzito interviene in prima persona e chiarisce che la parola «voto» è tabù. Scordatevi le urne. Fino a quando c'è lui, è congelato, rinviato, abolito, sconsigliato. Questo governo va blindato in tutti i modi: Berlusconi, Renzi, Grillo, i forconi se ne facciano una ragione. Eccolo il presidente: «Il Paese sta vivendo un clima, un mood, che non è esattamente di fiducia e noi ora dobbiamo reagire. Basta con il frastuono delle polemiche politiche anche quando non ci sono elezioni in programma, nonostante per qualcuno sia di moda invocarle in ogni momento».
Napolitano con queste parole dice che bisogna reagire e, perlomeno dal punto di vista letterale, si riconosce e si pone come reazionario. Siccome però non manca di esperienza politica, invita il Parlamento a fare le riforme istituzionali, in particolare parla di riforma del Senato. Il presidente sa che o la classe politica guida il cambiamento, oppure verrà travolta. Il problema è il tempo. Le grandi riforme non si fanno in un mese? Il rischio è che diventino la scusa per portare Letta fino al 2015 o oltre, magari al 2017. Servirebbe almeno un segnale veloce, altrimenti le riforme saranno solo un modo per tirare a campare, per congelare tutto, per gettare un incantesimo sulla società e sulla politica italiana.
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