di Vedere finire in manette un'intera famiglia «storica» del capitalismo italiano come quella dei Ligresti non lascia indifferenti. Ovviamente non sarebbe serio attribuire responsabilità di alcun tipo ai figli piuttosto che al padre prima che i fatti vengano definitivamente chiariti, tuttavia la vicenda si presta ad una riflessione su una questione raramente dibattuta: la delicatezza del passaggio generazionale nell'impresa. Uno dei punti di maggiore fragilità di un capitalismo «familiare», dove l'autorità del fondatore è preponderante rispetto all'autonomia del management e alla capacità di controllo degli azionisti che hanno fornito i capitali per l'espansione dell'industria di successo, risiede nell'identificarsi della persona con l'azienda. L'imprenditore eccezionale sarà probabilmente in grado di reggere le sorti della propria attività meglio di qualsiasi manager ma è altrettanto vero che tale successo diventa irripetibile come irripetibile è il patrimonio genetico di una persona.
La trasmissione ai figli dell'impresa di famiglia non ha alcuna garanzia di successo perché la «combinazione genetica» dei discendenti non sarà mai identica a quella del fondatore. Ciò non significa che la trasmissione ereditaria dell'impresa sia impossibile, basti pensare a imprese gloriose come la fabbrica d'armi Beretta, orgogliosamente eccellente sin dal remoto 1526, tuttavia la «successione dinastica» spesso non è semplice e la famiglia Agnelli ne è stato esempio, a volte anche tragico. La storia italiana recente ci ha lasciato diversi esempi di soluzioni per la continuazione dell'attività aziendale. In alcuni casi i figli condividevano le passioni dei fondatori e la transizione ha potuto effettuarsi linearmente: basti pensare a Berlusconi e ai suoi figli maggiori, oppure alla famiglia Ferrero. In altri casi i figli hanno considerato l'impegno in azienda dopo aver mostrato capacità in altre esperienze, come è il caso di Benetton. In altre situazioni ancora gli «eredi» sono stati scelti tra i parenti acquisiti come nel caso di Pirelli.
Vi sono state però molte situazioni dove il contrasto fra l'imprenditore e i discendenti si è rivelato insanabile, basti pensare alle battaglie legali fra il titolare di Esselunga, Caprotti e i figli, oppure molto semplicemente situazioni senza discendenti diretti (come è il caso di Armani) o dove il talento dei figli semplicemente era rivolto ad altre cose rispetto al management, cosa perfettamente legittima ma situazione che, se ignorata, potrebbe portare a disastri, perché costruire un'impresa è faticosissimo ma per distruggere tutto basta un attimo. Inutile farsi illusioni di un futuro maggior ruolo del mercato azionario per la creazione di public company dove un azionariato diffuso gestisca gli interessi dell'azienda: la nostra Borsa non è mai stata considerata un serio strumento di crescita, tuttavia una soluzione per gestire al meglio i passaggi generazionali ci sarebbe e potremmo prenderla a prestito dal diritto anglosassone, vale a dire incoraggiare anche in Italia l'uso del trust.
Il concetto è semplice e muove dal presupposto che se un genitore non può scegliersi il figlio né tantomeno le sue abilità ed aspirazioni, però può tranquillamente avere una o più persone di fiducia che possano amministrare al meglio i propri beni o l'azienda. Per evitare i rischi di contrasto fra eredi e amministratori (cosa assai probabile) ecco che è possibile conferire tutti i beni in una specie di «scatola» (il trust, appunto) dove chi amministra è separato da chi ne gode i frutti (il beneficiario). In pratica l'imprenditore può scegliersi mentre è in vita chi amministrerà i suoi beni e con quali regole, sottraendo ai discendenti l'influenza diretta sull'impresa ma mantenendo loro il diritto di goderne gli utili. Si mantiene così ai figli il diritto ai profitti ma si affida a chi si ritiene più meritevole il compito di continuare a generarli.
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