Se la morte di un figlio vale solo 2mila euro

L'assegno ai genitori dell'operaio Cavicchi. L'Inail: non aveva una famiglia a carico

È una scossa che fa tremare più di un terremoto. Non c'è scala Richter che possa misurarne l'entità. L'epicentro sta nel cuore di un padre, nel punto più profondo e più sensibile. Ma gli effetti si allargano a cerchi concentrici, raggiungendo tutte le coscienze d'Italia, almeno di quelle ancora accese, lasciando solo vergogna e incredulità.
Bruno Cavicchi ha provato a scaricare un po' di sana rabbia davanti a Oreste Tofani, senatore e presidente della commissione d'inchiesta sugli infortuni del lavoro, in visita nelle terre emiliane sconvolte dal terremoto. Ha provato a dirgli presidente, senta che storia la mia, non ho più un figlio, tutto il bene che mi restava, quella mattina mi hanno avvertito che era rimasto sotto al capannone della Ceramica Sant'Agostino, a Ferrara, e per me la vita s'è spenta con lui, un dolore che non se ne andrà più fino al mio ultimo respiro, però mai avrei pensato che pure il dopo si sarebbe rivelato tanto crudele, tanto duro, tanto amaro, perché in questi giorni ho scoperto quanto valesse per lo Stato la vita del mio Nicola, un italiano bravo e per bene, che faceva il suo dovere, lo sa presidente a quanto ammonta il contributo dell'Inail, lo sa a quanto arriva la quotazione di Nicola, tutto il mio bene, una vita davanti e tante speranze ancora, davvero riesce a credermi se le dico che la cifra esatta è di 1936,80 euro?
Sul momento nessuno ha trovato le parole giuste, perché nel vocabolario ancora non esistono parole in grado di spiegare a un padre che suo figlio valeva 1936,80 euro, non un centesimo di più. Poi, tempestivo e rigoroso, è intervenuto direttamente l'Inail, trovando subito le parole sue - dal superbo vocabolario della burocrazia - per spiegargli che è davvero tutto a posto, che ha avuto quanto gli spetta, che non esiste il minimo margine di un errore o di un'omissione. La spiegazione è un sublime esempio di quello che si intenda per incomunicabilità tra il gelo delle norme e l'anima delle persone: "La somma erogata non è il risarcimento per la perdita del figlio, ma il contributo alle spese per il funerale. Le prestazioni sono disciplinate dal Testo Unico del 1965. Il defunto Nicola Cavicchi non aveva una famiglia a carico. Dunque, l'Istituto non ha potuto erogare una rendita ai genitori. A loro spetta solo il contributo per le spese funerarie".
Gli pagano il funerale, nemmeno tutto, nemmeno tanto bello. Altro, per il giovane Nicola, caduto sul lavoro, non è previsto. Suo padre può piangere fin che vuole, gli italiani possono indignarsi quanto vogliono, ma la norma è precisa e c'è poco da discutere. E per favore non buttiamola subito in stupida demagogia, raccontando in giro che la vita di Nicola vale meno di duemila euro. Non è vero, non è così. E' tutto in regola, il Testo Unico parla chiaro. In un estremo scatto di umanità, viene riconosciuto almeno come questo "Testo Unico sia una legge di quasi cinquant'anni fa, dunque da attualizzare, perché senza dubbio non può tenere conto di cambiamenti significativi intervenuti sia nel lavoro, sia nella famiglia…".
Per fortuna il povero Nicola non può più sentire. Ovunque si trovi, la sua vita viene valutata in tutt'altra maniera. Tocca a noi, sopravissuti in questo strano luogo, ascoltare la dotta lezione di diritto e soffocare sul nascere le pulsioni peggiori, come pensare istintivamente alle aragoste e allo champagne che in certi consigli regionali si divorano in allegria, mettendo in conto alla collettività.

Niente e nessuno però, nemmeno il sacro Testo Unico, può impedirci di provare vergogna e imbarazzo davanti a questo padre, sconfitto e vinto dalla morte del figlio, ma anche dall'umiliazione. Direbbero nei dibattiti intelligenti che questi 1936,80 euro sono indegni di un Paese civile. Difatti vanno benissimo per l'Italia.

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